Falcone e Borsellino, non eroi, ma modelli cui ispirarsi
Non gli si debbono cucire indosso gli abiti degli eroi perché apparirebbero come modelli inarrivabili. Sarebbe più giusto, piuttosto, dipingerli per quello che erano: uomini come noi ma fedeli ai propri ideali di legalità e giustizia, per i quali hanno sopportato indicibili amarezze e pesantissime privazioni, servendo lo Stato fino in fondo anche a costo di morire.
25 anni da quel terribile 1992: sembra ieri, è una vita fa. Nulla potrà mai farmi dimenticare il misto di rabbia, disperazione e dolore che provai quel maledetto 23 maggio, quando seppi che cinquecento chili di esplosivo avevano trasformato lo svincolo di Capaci in uno scenario di guerra; nulla potrà mai cancellare il ricordo di quel giorno d’estate in cui il boato di Via D’Amelio squarciò l’apparente quiete di una domenica qualunque d’estate, rendendola tristemente indimenticabile per l’Italia intera. I dettagli di quel che avvenne sono così carichi di orrore che preferisco non ripeterli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono, in Italia e in gran parte del mondo, celebrati come eroi.
Sono simboli onorati con rispetto e riconoscenza: per me sono stati maestri dai cui ho imparato molto sulla professione che ho svolto per 43 anni; colleghi con i quali ho lavorato, vivendo assieme momenti di straordinaria speranza ma anche cocenti delusioni; amici con cui beffarsi della vita blindata alla quale eravamo sottoposti o condividere i pochi momenti di relax che il nostro lavoro ci concedeva. Vorrei che di queste figure si ricordasse la loro straordinaria professionalità, il loro talento da veri fuoriclasse ma anche il fatto che erano persone come tutti. Giovanni, ad esempio, trovava sempre una buona scusa per farsi cucinare da mia moglie Maria la minestra di riso e broccoli. Paolo, invece, amava così tanto la semplicità delle cose che mi stupisco ancora a ricordare di quando lo incontrai mentre da solo, senza scorta – una eventualità impensabile per un uomo che era da anni nel mirino di cosa nostra – se ne andava al supermercato a fare la spesa e declinava con gentilezza l’offerta di chi, riconoscendolo, voleva fargli saltare la fila alla cassa. Non gli si debbono quindi cucire indosso gli abiti degli eroi perché apparirebbero come modelli inarrivabili. Sarebbe più giusto, piuttosto, dipingerli per quello che erano: uomini come noi ma fedeli ai propri ideali di legalità e giustizia, per i quali hanno sopportato indicibili amarezze e pesantissime privazioni, servendo lo Stato fino in fondo anche a costo di morire. Non eroi, dunque, ma cittadini modello: ciascuno di noi, ognuno secondo la propria competenza e possibilità, può esserlo. Sui tumuli di terra che li ricoprono dobbiamo inginocchiarci e promettere di fare tutto il possibile per continuare la loro opera, per cambiare, per rendere migliore questa nostra Italia a cui troppe volte non diamo l’amore che merita.
In questi venticinque anni abbiamo ottenuto straordinari successi nella lotta alla criminalità organizzata ma non per questo possiamo dirci pienamente soddisfatti e di aver esaurito le ragioni del nostro impegno per la legalità; c’è ancora molta strada da fare, molte verità da svelare e altrettante ingiustizie da sanare. I bambini nati nell’anno delle stragi di Capaci e Via D’Amelio sono ormai diventati adulti, magari qualcuno di loro ha già dei figli. Per loro ho voluto riaprire l’album della mia storia personale e professionale, con la speranza di trasmettergli i valori e gli ideali che hanno guidato tutta la mia vita. Ho scelto di raccoglierli in un libro, edito da Feltrinelli, da pochi giorni in libreria: “Storie di Sangue, Amici e Fantasmi”. Storie di sangue, quello che ha imbrattato la mia Sicilia e scosso l’Italia intera; di fantasmi che sembravano imprendibili come Provenzano; di amici, come Giovanni e Paolo. Alcuni ricordi sono dolorosi, altri mi fanno sorridere, altri ancora sono frustranti: tutti mi danno la forza e la determinazione di continuare, fino a quando la mafia avrà una fine.
* Presidente del Senato
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