Una legge con troppe forzature
Ognuno può intuire che una legge sulle unioni civili fatta come la nostra si allontana dalla giusta strada. Non è un problema di esclusione o inclusione sociale, si tratta di dare a ciascuno il suo. Il rispetto delle diversità è insito nel principio di giustizia, e non si può ingannarlo fingendo di abolire per legge le diversità, là dove esse esprimono la loro inimitabile essenza. Forse è venuto per noi il tempo di riscoprire la meraviglia della vocazione sponsale, e mostrarne la gioia a viso aperto, non “contro” qualcuno, ma per dare testimonianza della grande ventura donata alla creatura umana, maschio e femmina. È un canto che nessuna aggressione negatrice potrà spegnere.
Quello che stona di più, nella legge sulle unioni civili approvata nei giorni corsi, sono le forzature. Non dico il modo di spingerla fuori col torchio, con rozzo galateo, a colpi di fiducia persino alla Camera dei deputati dove il governo aveva la schiacciante maggioranza ereditata dal “porcellum”, e invece ha lasciato tutti zitti. Dico per i contenuti sostanziali, rimasti fermi senza più dibattito nella loro ambigua incoerenza su punti di estrema importanza, quasicché lo stralcio della “stepchild adoption” avesse tolto il verme dalla mela risanata. Il primo punto è che questa unione civile fra omosessuali, anche se non si chiama matrimonio, instaura una relazione omogenea a quella coniugale, che attrae su di sé il compendio pressoché intero delle norme destinate agli sposi. È ipocrisia irritante far giochi di parole su queste cose; se l’intento era di riconoscere specifici diritti a coppie di gay, si poteva farne tutto il catalogo che si voleva, eredità e reversibilità compresa; ma farne dei “coniugi” no, per la Costituzione “l’unione omosessuale non è omogenea al matrimonio” (Corte Costituzionale, sentenza 138 del 2010). È in questo punto preciso che avvertiamo la svolta a gomito della legge, e la suggestione di una pretesa egualitaria vestita da conquista civile, che respinge come discriminazione il riscontro della diversità. Nessuna discriminazione. È che maschio e femmina e matrimonio e famiglia sono parole e realtà umane in cui si esprime il significato sponsale del corpo e la vocazione di trasmettere la vita. Altri sodalizi possono avere quel che conviene e che non stona; ma restano altro e non v’è legge che li trasmuti. La famiglia infatti non l’ha inventata la legge, c’era da prima e viene prima della legge. È la condivisione di vita dell’uomo e della donna che si completano reciprocamente nell’amore; è la fonte della nuova vita. È da questo che ha origine il villaggio umano, fatto di famiglie; ed è per descrivere come copia dal vero ciò che è giusto intrinsecamente nella relazione coniugale, nella relazione parentale, nella relazione sociale col villaggio, che si scrive il “diritto di famiglia”. Esso nasce dalla famiglia stessa, e il villaggio vi dà protezione, per la sua stessa consistenza e il suo futuro; l’intuizione millenaria dei giureconsulti romani (“familia seminarium reipublicae”) si salda con la nostra Costituzione, secondo la quale “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Ognuno può intuire che una legge sulle unioni civili fatta come la nostra si allontana dalla giusta strada. Non è un problema di esclusione o inclusione sociale, si tratta di dare a ciascuno il suo. Il rispetto delle diversità è insito nel principio di giustizia, e non si può ingannarlo fingendo di abolire per legge le diversità, là dove esse esprimono la loro inimitabile essenza. Forse è venuto per noi il tempo di riscoprire la meraviglia della vocazione sponsale, e mostrarne la gioia a viso aperto, non “contro” qualcuno, ma per dare testimonianza della grande ventura donata alla creatura umana, maschio e femmina. È un canto che nessuna aggressione negatrice potrà spegnere. E chi crede al Vangelo, e vi resta fedele più di chi giura su una Costituzione che manomette, sa che in quella alleanza d’amore c’è un segno sacro.
(*) Toscana Oggi (settimanale cattolico regionale)
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