L’opera è un mezzo attraverso cui il poeta parla della sua vita, dei suoi affetti e della condizione degli umili e degli oppressi
Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini
Sessant’anni fa usciva il noto film che svela un legame mai smarrito tra il cineasta e il mondo cattolico
Il poeta, scrittore, sceneggiatore e attore Pier Paolo Pasolini scrisse e diresse nel 1964 il film cult “Il Vangelo secondo Matteo”. Per celebrare i sessant’anni dall’uscita nelle sale di questa pellicola è stata inaugurata, lo scorso 12 aprile, una mostra fotografica nel Centro studi Pasolini di Casarsa della Delizia (Pordenone), visitabile fino al 25 agosto. La rassegna, realizzata in collaborazione con la Cineteca di Bologna, è curata da Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini, secondo il quale le foto di scena sono “un modo per tracciare una sorta di mappa del film, e trattandosi di un’opera che turba, stimola alla riflessione e suscita emozioni, prolungano e approfondiscono questo tipo di processo”. La mostra “non solo documenta l’aspetto visuale e materiale di un’opera cinematografica importante, ma stimola ricerche, approfondimenti e nuovi studi sull’autore” ha aggiunto Flavia Leonarduzzi, presidente del Centro Studi. Divisa per aree tematiche l’esposizione consta di una quarantina di scatti, molti dei quali inediti, prodotti dietro le quinte del film da Angelo Novi, storico maestro della foto di scena. Le immagini a colori (nonostante il film sia in bianco e nero) ci aiutano a comprendere i punti di riferimento pittorici di Pasolini, tra cui Piero della Francesca da cui il regista trae ispirazione per vestire i personaggi dei farisei con abiti sontuosi. Nella sezione “Volti e corpi” ritroviamo personaggi popolani, mentre in “La reinvenzione dei luoghi” e ne “La sacralità dei rituali” spiccano foto delle meravigliose architetture del castello di Gioia del Colle in Puglia, oltre agli scenari assolati della Basilicata. Nell’area “La realtà del set” sono esposte diapositive autentiche di Novi, che mostrano la presenza sul set anche degli amici di Pasolini, tra cui Natalia Ginzburg (che interpreta Maria di Betania), Enzo Siciliano, Giorgio Agamben, Ninetto Davoli ed Elsa Morante (allora consulente musicale). La rassegna svela altri dettagli preparatori del film, come le battute riportate dal regista su delle lavagnette per farle ripetere agli attori non professionisti, o le scene prima girate e poi tagliate. L’idea di questo progetto si insinua nella mente di Pasolini nell’ottobre del 1962, quando prende il libro dei vangeli e lo legge mentre è ospite della Pro Civitate Christiana di Assisi. Decide di dedicarlo “alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”, il papa buono impegnato nel percorso di rinnovamento della Chiesa in seno al Concilio Vaticano II. Pasolini mostra una grande capacità visionaria e introspettiva, intuibile già nella scelte degli attori: lo spagnolo Enrique Irazoqui (un sindacalista antifranchista) veste i panni di un Gesù dal volto intenso e credibile, Susanna Colussi (madre di Pasolini) interpreta la parte di Maria di Nazareth restituendo un’immagine suggestiva del rapporto che, nella realtà, ha con il figlio regista, mentre vari attori non professionisti e comparse scelte dalla popolazione contadina costituiscono la folla di persone che ruota attorno al Salvatore e che, con i volti scavati e afflitti, incarnano il prototipo dell’umanità sofferente. In questa creazione, dunque, c’è molto della vita, della personalità e dei valori morali di un poeta-regista che, in età adulta, si dichiara marxista non credente ma intenzionato a non fare niente che possa offendere la fede cattolica. Per trarre ispirazione compie prima un viaggio in Terrasanta, accompagnato da don Andrea Carraro della Pro Civitate Christiana di Assisi. In seguito ricrea i luoghi della Galilea tra Puglia, Lazio e Calabria, e “riproduce” la Palestina in Basilicata tra i sassi di Matera. Le campagne dell’Italia meridionale gli restituiscono un’immagine verosimile degli ambienti poveri e degradati della Palestina in cui visse Gesù. Il film, prodotto tra Italia e Francia, ripropone fedelmente il Vangelo di Matteo (a parte qualche piccola variazione) a partire dall’annunciazione fatta a Maria, passando per la nascita del Figlio di Dio, per la sua azione evangelizzatrice, per la sua passione, morte e resurrezione. L’opera riscuote un grande successo di pubblico e, ancora oggi, rappresenta una pietra miliare della cinematografica novecentesca italiana e internazionale, nonostante le aspre critiche che hanno accompagnato all’epoca la sua uscita nelle sale. Pasolini fu accusato, infatti, di vilipendio alla religione per aver trattato la materia divina in maniera antidogmatica, per averla desacralizzata, e per aver proposto sullo schermo il volto di un Cristo-uomo contornato dai canti rivoluzionari russi, insieme ai pezzi di Bach e Mozart. La critica di sinistra risponde freddamente sull’Unità dicendo che “il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”. L’Osservatorio Romano giudica invece molto positivamente la pellicola dicendo che è “fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo” e che è “il più bel film su Gesù di tutti i tempi”. Il sostegno del Vaticano gli vale l’assegnazione del Premio cattolico OCIC alla Mostra di Venezia del 1964, con la motivazione che il suo creatore è stato capace di “esprimere in immagini la dignità propria del testo sacro”. Lui stesso dice che la sua lettura del Vangelo di Matteo è comunque di tipo marxista, ma non può che “serpeggiare in me il fascino dell’irrazionale, del divino, che domina tutto il Vangelo” aggiunge. Così facendo cerca di creare un ponte di comunicazione tra il marxismo e il cristianesimo, provando una sintesi tra le due fedi ma senza accettarle acriticamente. Il cineasta è stato oggetto di critiche feroci anche per il fatto di aver comunicato un messaggio chiaro: “Cristo è uomo come ognuno di noi, noi siamo allora uomini come lui”. È il film di un laico che mette in luce l’umanità ma non la divinità di un Gesù severo. La predicazione evangelica è calata nella realtà concreta dei poveri, degli emarginati, degli oppressi (che è ciò che interessa veramente a Pasolini) mentre la dimensione sovrannaturale e miracolistica del Messia è ridotta. La volontà di comunicare il messaggio sociale del Vangelo rivolto agli ultimi, con sincerità e umiltà, è un modo attraverso cui l’autore cerca di dare risposte esistenziali alle sue domande sul mistero di Gesù. Il film inizia con la citazione “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: non sono venuto a portare pace, ma una spada”. Qui si intravede l’attivismo socio-politico e l’anima combattente di un Pasolini arruolato nel PCI, che cerca di difendere, con toni provocatori e di forte dissenso, la civiltà contadina e proletaria, bersagliata dai fascismi ed esclusa dallo sviluppo sociale, e prova a denunciare la società consumistica, il bigotto conformismo borghese, la perdita del “sacro” e quel “genocidio culturale”, cha ha diffuso solo cinismo e individualismo. Con quest’opera egli parla della sua condizione di uomo perseguitato da una contemporaneità che non lo capisce e, per questo motivo, finisce inchiodato (“assassinato da alcuni malavitosi il 2 novembre 1975”) sulla croce come Cristo. La morte del Messia, che ci presenta con un volto dolce ma anche violento, ribelle e arrabbiato è, per l’autore, l’inizio della storia degli uomini che si proietta avanti verso nuove epoche. Nella lettera ad Alfredo Bini del giugno 1963 il poeta scrive “Per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”; ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica; il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentato nel Vangelo”.
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