Dai 27 metri di Kazan a piazza Kennedy. Un caffè con Alessandro De Rose
Il campione cosentino di tuffi dalle grandi altezze si racconta a Parola di Vita.
Cosenza, piazza Kennedy. Il cielo è completamente nuvoloso. Aria fresca, leggera, concilia un po’ dopo giorni di caldo intenso. Al Bar. Due caffè addolciti dallo zucchero di canna. Pronti, partiamo. Alessandro De Rose è rientrato ieri sera a Cosenza dopo i Mondiali di nuoto di Kazan (Russia) dove resterà per una decina di giorni. Lui è il rappresentante nazionale dell’Italia nei tuffi dalle grandi altezze (ventisette metri per intenderci), o meglio, in inglese, “cliff diver”. Ragazzo solare, disponibile, gentile e patriota. Si patriota, perché è fiero di essere italiano, ma soprattutto cosentino anche se l’accento un po’ l’ha perso: ”me lo hanno detto anche a Kazan, ma se devo parlare in dialetto, - spiega - ci parlo senza alcuna difficoltà”. Ragazzo, dicevamo, aperto, che ha conosciuto i segni della depressione sulla sua pelle a quattordici anni quando perse il padre e fu scaricato dalla società dell’epoca. Con forza e coraggio riuscì a riscattarsi. Ora, tornato a distanza di anni nella sua città natale, è contento di questo suo successo. Parlate un po’ della vostra… (mi interrompe dicendomi “dammi del tu”).
Allora, parla un po’ della tua carriera che è partita da Roma.
Ho iniziato a cinque anni con i tuffi normali, dai tre a i dieci metri, poi a diciassette anni mi sono trasferito nella Capitale per lavorare ad un famoso parco acquatico della città. Li ho provato i tuffi dalla grande altezze, venti metri.
Racconta il processo che ti ha portato a disputare i mondiali di Kazan.
E’ stato abbastanza fortuito perché a diciotto anni iniziai a tuffarmi nei parchi acquatici e non avevo nessuna intenzione di fare gara tuffandomi da ventisette metri. Finché a ventuno anni, trasferito a Londra, un mio amico, Nicola Marconi, della Nazionale, mi contattò chiedendomi se c’era qualcuno che volesse fare delle gare da grandi altezze e, senza pensarci su, mi sono proposto. Il giudice/arbitro di quelle gare ha visto talento in me e spinse alla Nazionale dicendo che ero bravo e stranamente, questo sport, iniziò a essere riconosciuto. Prima, infatti, era una disciplina estrema, ma adesso è uno sport a tutti gli effetti. In seguito, partecipando alla Coppa del Mondo e avendo dei risultati positivi. Nella seguente edizione dello stesso torneo ho iniziato ad avere il supporto della Nazionale e infine, sono riuscito ad arrivare a Kazan. Fortuito anche perché sono l’unico atleta italiano di cliff diver.
Com’è andato il Mondiale a Kazan?
Un’emozione indescrivibile, perché, nel mio modo di pensare, tutti i partecipanti hanno scritto un po’ della storia di questo sport perché era il primo mondiale in cui si praticava questa disciplina. Avevo fatto gare a livello mondiale, ma mai rappresentando la mia patria. Sono un ragazzo molto patriottico e aver rappresentato l’Italia, è stato raggiungere uno dei sogni della mia vita. Adesso si deve pensare più in grande, puntando alle Olimpiadi di Tokyo.
In che cosa consiste questo sport? Saltare da ventisette metri è una roba da folli?
Sembrerà strano ma è più semplice delle apparenze. Se si inizia da piccoli si sale dai 3 metri fino ad arrivare ai dieci. A dodici anni, i dieci metri sembrano i venti. E’ una questione di abitudine. Tecnicamente parlando i tuffi olimpionici e quelli dalle grandi altezze non hanno tante differenze. L’unica cosa che cambia è l’ingresso in acqua. In quelli olimpionici si entra di testa, in quelli dalle grandi altezze di piedi perché il quadricipite è il muscolo più forte del nostro corpo e attutisce l’impatto con l’acqua. Il nostro sport è anche più affascinante perché ci tuffiamo da un’altezza tre volte superiore rispetto ai tuffi da 10 metri.
Quando ti tuffi dal trampolino, cosa provi?
La cosa che sia avvicina di più al volare. Perché si sente l’accelerazione del corpo e la forza di gravità di fa scendere a 90 km/h quindi è come andare su una bella moto, tipo Kawasaki ninja, e si accelera fino in terza, in autostrada senza limiti, e arrivi in tre secondi a 90 km/h. Questa è la sensazione più simile. In quel momento è libertà perché non hai il tempo per pensare ad altro, ma solo a te stesso e a quello che stai facendo. Un momento in cui ti annulli dalla vita normale.
Al “Corriere della Sera” hai detto: “è come un duello contro Tyson in cui vince sempre lui”…
Purtroppo si. Dopo ogni gara, anche se ti sei tuffato bene senza subire alcun incidente, hai dei traumi muscolari al collo, all’addome e ogni volta in cui si entra in acqua sembra che ricevi un pugno in gola, quindi un tiro di Tyson sotto il muso.
In che cosa consiste la preparazione a queste gare?
Tanta preparazione fisica. Mi alleno quasi tutti i giorni. Cinque ore a giornata di cui tre di palestra. Un’ora di esse è dedicata al potenziamento quindi a rendere i muscoli più forti e più resistenti per l’impatto in acqua. Il restante delle ore mi alleno dai dieci metri perché non avendo i ventisette, l’unica altezza sono i dieci.
Come si giudica un buon tuffo?
In tre parti: la partenza che è la posizione in cui stacchi dalla piattaforma. L’evoluzione in area, la parte centrale. Infine l’entrata, che è il 70 % del voto. Se si entra senza troppi schizzi è semplice prendere degli otto o sette. Quindi anche una persona che non conosce la disciplina può facilmente identificare se un tuffo è buono o no. Poi si guarda pure l’eleganza. Infatti a Kazan sono riuscito a prendere 100 punti perché ho preso tutti nove (quasi la perfezioni). Mi hanno premiato molto sull’altezza del tuffo, infatti ho spinto tanto in alto, circa due metri in più.
A quattordici anni perdi tuo padre e la società dell’epoca ti scarica, qual è stata la tua reazione?
Ho avuto un periodo molto difficile, perché sono caduto in depressione. Avevo perso una parte fondamentale della mia vita, poi la parte più importante. Allora è stato abbastanza buio. Presi delle brutte strade, anche perché a Cosenza non è difficile. Arrivato a diciassette anni ho capito che non era questa la vita da seguire. Sono andato via dal Sud perché avevo bisogno di stare un po’ lontano. Ma ogni volta che scendo sono molto felice. Cosenza ce l’ho nel cuore. A Kazan mi hanno detto che ho perso un po’ l’accento, ma posso parlare tranquillamente in cosentino. Così ho aiutato sia la mia famiglia e sia ho continuato a seguire i miei sogni. Per quanto la vita è stata difficile se lo penso, dico se non fosse mai successo non sarei andato a disputare un mondiale dalle grandi altezze. Quando ti si chiude una porta, ti si apre un portone. Ho un tatuaggio sulla spalla destra – spiega – “E’ la fine di un nuovo inizio” e finita la vita con mio padre, ma è stato l’inizio di un’altra.
C’è anche un altro tatuaggio, che è diventato famoso, quello con le due pistole e la scritta vendetta?
Quello l’ho fatto con un po’ di stupidità perché ero arrabbiato con la piscina di Cosenza e mi sono fatto trasportare dall’emozione. Mi avevano levato tutto. Non volevo portare avanti un’idea mafiosa delle pistole è più un simbolo. Un messaggio forte per non dimenticare il dolore che ho provato. Ora ho avuto la mia vendetta con il Mondiale. Sono un’atleta della Nazionale e ho avuto i complimenti dal presidente della Nazionale Barelli e del CONI Malagò. Voglio dire una cosa.
Quale?
Cosenza ha tanto da offrire, un ottima città. Molte volte noi ci lamentiamo non facendo nulla. Se facessimo qualcosa potremmo rendere grande questa città.
Altri tatuaggi significativi?
Un altro è questo – spiega puntando il polso della mano destra – che ricorda i miei quindici anni in cui ero caduto in depressione psicologica. Ho iniziato ad autolesionarmi per non pensare a mio padre. Invece adesso, col segno di poi, mi sono fatto un tatuaggio per ricordarmi di quel momento. Lo guardo e penso a mio padre.
Sei credente? No, ma c’è una bella storia: dopo il primo giorno di gare, camminavo nell’area tuffi con il mio amico spagnolo e stavamo tornando in albergo a piedi. Ad un tratto ci ferma uno svizzero dicendo che lavorava con la Nazionale svizzera dando la possibilità ai ragazzi di acquistare fiducia. Noi, incuriositi, gli abbiamo chiesto se poteva fare qualcosa per noi. Lui ci ha regalato una preghiera. Ora, non sono credente, ma l’ultimo giorno feci il tuffo più bello di tutti. Forse è stato mio padre che mi ha seguito da lassù.
Segui altri sport?
Sono appassionato di tanti sport. Seguo il calcio. Tifo per la Juve da sempre perché la mia figura sportiva preferita è stata e resterà Alessandro Del Piero, che ha anche il mio stesso nome. Amo anche tutti gli sport estremi come il motocross acrobatico.
Conosci Tania Cagnotto?
Con Tania ci conosciamo e mi ha dato anche i complimenti. Ma conosco tutti i tuffatori della Nazionale.
La tua fidanzata è anche il tuo tecnico, che effetto ti fa?
E’ strano, ed è anche pesante. Ti sgrida prima in piscina e poi a casa, ventiquattro ore non stop. Però è bello perché da ventisette metri non è facile perché bisogna fidarsi del proprio tecnico e so che lei non mi direbbe mai qualcosa per sbagliare, anzi mi guarderà con molta precisione osservando i problemi e provvedere a correggermi. C’è una fiducia tra me e lei? Tu alleni anche… “Si alleno”.
E ai tuoi atleti che insegnamenti impartisci?
Quello che cerco di insegnare è quello che il mio primo allenatore, Gaetano Aceti, mi insegnò quando ero a Cosenza. Dal punto di vista tecnico ci ha dato tanto, ma quello più importante ci ha fatto amare questo sport trasmettendo una grande passione. Per i tuffi farei qualsiasi cosa. Mi alleno sempre. Quindi voglio trasmettere questa passione. Questa disciplina contiene tutti gli elementi: aria, terra, acqua e il fuoco che arde dentro noi atleti.
Come hai trovato Cosenza?
E’ cambiato molto. E’ un bella città, pulita. Piace tanto anche alla mia fidanzata che è di Trieste.
Cosa vedi nel tuo futuro?
Ho avuto offerte dalla fiamme oro, fiamme azzurre e Carabinieri. Quindi spero di entrare in un arma così mi possa dedicare al 100 % solo ai tuffi pensando come un professionista. Voglio andare ai prossimi Mondiali, arrivare in finale e conquistare una medaglia. Anche le Olimpiadi sono un obiettivo.
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