L'esempio e l'amore per la maglia di Alessandro Piluso
Il campione del Volley Cosenza lascia dopo una vita in rossoblù. Un'intervista esclusiva sul nostro settimanale.
Abbiamo raggiunto lo storico capitano del Cosenza pallavolo, Alessandro Piluso, che sabato ha giocato l’ultima partita della sua carriera, in un palazzetto gremito che ha omaggiato un giocatore che ha lottato e sudato sempre e solo per la sua maglia, nonostante le tentazioni di trasferimento che si sono presentate durante il suo percorso. Tuttavia, affermarsi nella propria città, con compagni che conosce da una vita, ha rappresentato per il pallavolista un grande viatico per la gloria. Un leader carismatico che ha saputo portare la voglia di lottare e soprattutto la grande fame di vittorie, crescendo nel tempo e diventando un giocatore di tutto rispetto.
Alessandro, sabato hai giocato la tua ultima partita con la tua squadra del cuore, il Cosenza Pallavolo, che sensazioni hai provato nei tuoi ultimi minuti in campo, nella tua ultima giornata da giocatore?
Le sensazioni sono state contrastanti. Alle 16 stavo preparando per l’ultima volta il borsone, sono andato a prendere il mio storico compagno Gaetano Rizzuti e nella macchina prima di andare al palazzetto si respirava un clima strano, quasi surreale. L’emozione più grande è stata sicuramente durante l’ultimo applauso del mio pubblico, che ringrazio fortemente.
Cosa ha rappresentato nella tua vita la pallavolo?
Per me è stata fondamentale, perché la mia famiglia ha sempre giocato a pallavolo, sono stati loro a spingermi a iniziare questo sport. Mi sono sempre allenato duramente, ho lottato, ho sudato e ho sempre creduto che i risultati arrivino grazie ai sacrifici.
Quali sono state le partite che ricordi con più piacere? Quali quelle che ti hanno insegnato di più?
Un ricordo indelebile nella mia mente è la promozione della stagione 2001/2002 dalla B2 alla B, dove feci il punto decisivo della vittoria. Le partite che mi hanno insegnato di più sono quelle che ho perso, dove ho imparato a non mollare mai e a risorgere dalle difficoltà.
Nella tua carriera hai avuto tanti allenatori, quali sono stati quelli che ti hanno fatto crescere maggiormente e con i quali hai avuto i rapporti più belli, che magari andavano oltre la semplice relazione giocatore-allenatore?
Sicuramente riveste un ruolo cardine nella mia esperienza pallavolistica Katia Persico, che è stata la mia prima allenatrice e che devo ringraziare perchè mi ha fatto amare questo sport. Anche Danilo Vitaro è stato importante per me, mi ha insegnato tanto nel momento della mia crescita giovanile, Giorgio Dagaro, Giovanni e Claudio Torchia allenatori che stimo molto. Infine un ringraziamento va ai miei ultimi due allenatori, Tonino Cavalera e Alessandro Fammelume.
Cosa significa fare il capitano?
E’ stato un grande privilegio, oltre che un onore. Significa fare da collante tra società e giocatori, significa sacrificarsi per i propri compagni, amare la maglia che si indossa. Sicuramente diventa un ruolo difficile nel momento in cui i risultati non arrivano, e aumenta la pressione.
Dopo 29 anni di carriera, ti piacerebbe rimanere nel mondo della pallavolo come allenatore o dirigente?
Il pensiero di lasciare per sempre questo ambiente c’è stato, ma è durato pochissimo. Amo troppo questo sport. Credo che non farò l’allenatore, mi piacerebbe fare il dirigente della mia società, se ci sarà la possibilità, altrimenti andrò a guardare le partite al palazzetto con grande passione. La pallavolo è e sarà sempre parte integrante della mia vita.
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