Corruzione, un virus letale che continua a infettare il sangue italico
È davvero così difficile essere onesti? Occorre smarcarci da ogni stantia retorica per giungere a dare una risposta onesta alla nostra domanda: anche dalla retorica dei diritti, che paradossalmente continuano a germinare gli uni dagli altri smentendosi e neutralizzandosi a vicenda, tirando da una parte e dall’altra la coperta corta, ormai troppo lisa, delle regole e delle norme, formulate e utilizzate sempre più in senso autoreferenziale e non come garanzia del bene comunitario.
Acireale, 9 giugno scorso: quindici impiegati comunali sono licenziati in tronco, perché la Procura di Catania ha appurato ch’essi per mesi, forse anche per anni, hanno fatto i “furbetti”. Un eufemismo, questo, che suonerebbe come un complimento se non traducesse parole gravi, evidenziate in grassetto niente poco di meno che sul registro degli indagati: truffa all’erario e falso ideologico. Così l’eufemismo si traduce di botto in sinonimo di “disonesti”. Segnavano, o facevano segnare da qualche collega compiacente, la loro presenza in ufficio strisciando il badge nel lettore marcatempo puntualmente a inizio mattinata, ma poi se ne andavano a fare tutt’altro, dalla spesa nel supermercato più fornito al caffè – rigorosamente “lungo” – sorseggiato con gli amici del Bar Sport. A proposito di sport, dall’altro capo della Penisola, a Sanremo, pare che altri furbetti, con lo stesso metodo, lo abbiano persino praticato, togliendosi a giorni alterni giacca e cravatta e indossando la tuta per andare a farsi qualche vogata in canoa. Per guadagnare tempo qualcuno – come l’ormai famoso vigile urbano immortalato dalle telecamere della Guardia di Finanza – si presentava a timbrare il cartellino già in mutande. Conseguenza: nell’ottobre 2015 trentacinque arresti nella capitale della canzone italiana e più di cento altri indagati, in gran parte impiegati del Municipio. Ma i vigili urbani della Capitale – quella vera – del nostro Belpaese non sono da meno: risale al 21 giugno 2016 l’arresto di uno di loro a Roma, accusato di aver preso mazzette – assieme a un funzionario del Comune capitolino – da alcuni imprenditori, a loro volta ora imputati per corruzione oltre che per turbativa d’asta e per altre immonde questioni. Vale a dire: per affari sporchi. Chissà come saranno “bianchi” i colletti delle loro camicie e di quelle di tanti altri capitani d’industria, pubblici amministratori e tutori (si fa per dire) della legge, che ormai un po’ ovunque in Italia sono presi con le mani nel sacco. Le audio-intercettazioni e le registrazioni visive ci stanno abituando a tutto: dal pensionato finto cieco al finto paladino della legalità che ha fondato fasulle associazioni antiracket e ha firmato protocolli d’intesa con le forze dell’ordine intrecciando però le dita dietro la schiena. Alla lunga finiamo per chiederci perché mai siamo giunti ad accumulare questo spaventoso deficit of civicness, come Robert Putnam lo ha definito in suo libro (Making Democracy Work), in cui avverte che questa mancanza di senso civico – di educazione civica, potremmo anche dire – nel nostro Paese “ne compromette sia la qualità della politica e delle istituzioni, sia le opportunità di sviluppo economico e sociale”. Dovremmo attenderci, però, la giusta risposta più che dal sociologo dallo storico disposto ad andare a spulciare le carte che documentano il modo in cui si realizzò l’unità d’Italia, a cominciare dalla conquista del Sud. Infatti, di mazzette dispensate ai generali borbonici già allora si trattò, prima ancora che di mazzate inferte dalle camicie rosse all’esercito di Francesco II.
Non sto divagando in improbabili revisionismi. Leopoldo Franchetti, nel 1877, a conclusione del primo volume dell’inchiesta realizzata l’anno precedente, assieme a Sidney Sonnino, sulle condizioni politiche, amministrative e sociali della Sicilia, lasciava intuire che un virus letale aveva infettato il sangue italico: “Certamente l’Italia potrà sussistere per molto tempo ancora in quelle medesime condizioni nelle quali vive da quindici anni. Sono molte le malattie organiche che non spingono a pronta morte. Ma in un organismo indebolito, pieno di germi di decomposizione, quelle medesime cagioni che in un corpo sano produrrebbero effetti appena avvertibili, generano lo sfacelo generale”. La malattia mortale che minacciava la salute della patria da poco unificata, a cui Franchetti alludeva, era proprio la pubblica corruzione, che nell’Isola si esprimeva nella connivenza con la mafia. Da allora a oggi la malattia, decennio dopo decennio, s’è cronicizzata e anzi s’è incancrenita, diventando di fatto una sorta di purulenta necrosi emanante la “puzza” – per dirla stavolta con papa Francesco – tipica di quegli organismi che vanno decomponendosi, degenerando persino in quel “cancro” di cui anche i vescovi italiani hanno scritto in un loro documento del 2010, intitolato Per un Paese solidale. La cancrena, si sa, si espande – via via – da un membro del corpo a tutti gli altri. E anche il cancro si allarga con le sue metastasi in parti del corpo che non si sarebbero immaginate così direttamente collegate con quella in cui il tumore è esploso. È la “linea della palma” che va salendo, ha scritto Leonardo Sciascia in una suggestiva pagina de Il giorno della civetta, la linea della desertificazione etica e civica galoppante “su su per l’Italia”, come “l’ago di mercurio di un termometro” che segna una febbre implacabile: “Ed è già oltre Roma”, avvisava lo scrittore nel 1960.
Occorre smarcarci da ogni stantia retorica per giungere a dare una risposta onesta alla nostra domanda: anche dalla retorica dei diritti, che paradossalmente continuano a germinare gli uni dagli altri smentendosi e neutralizzandosi a vicenda, tirando da una parte e dall’altra la coperta corta, ormai troppo lisa, delle regole e delle norme, formulate e utilizzate sempre più in senso autoreferenziale e non come garanzia del bene comunitario. Difatti non è la stretta del legalismo che potrà guarirci, giacché fatta una legge si riesce a trovare pur sempre l’inganno. Dal piano legale, su cui si pone l’emergenza del resto insopprimibile dei diritti, faremmo bene a tornare sul piano morale, in cui s’afferma pure l’urgenza intima e radicale del dovere: l’altro polo della nostra condotta, che da troppo tempo rimane in ombra.
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