Ma le cure palliative non sono ancora un diritto del malato
Molto si è fatto, ma molto resta ancora da fare. Si calcola, infatti, che ogni anno venga assistito da una "rete locale di cure palliative formalmente definita" non più del 20% degli utenti potenziali. Perché? Cosa non funziona ancora? Due i punti deboli ancora insoluti, che ostacolano di fatto la fruizione di questo "diritto": l'informazione dei malati e la formazione dei medici palliativisti.
In Italia le cure palliative presentano ancora alcuni punti “dolenti”, che attendono maggiore impegno e interesse da parte delle istituzioni e della società civile nel suo insieme. Ricordiamo che “per cure palliative s’intende l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici” (L. 38/2010). In pratica, le cure palliative si fanno carico del controllo del dolore e degli altri sintomi del paziente, così come dei problemi psicologici, sociali e spirituali suoi e dei familiari che lo assistono. Si tratta, quindi, di una specialità interdisciplinare, che richiede l’interazione sinergica di diverse figure professionali (medici, infermieri, fisioterapisti, psicologi, assistenti sociali e spirituali). Ormai sono passati più di venticinque anni da quando i “pionieri” della cure palliative in Italia hanno iniziato a sviluppare questa disciplina. Da allora molto si è fatto. Basti pensare che oggi, sono attivi su tutto il territorio nazionale ben 221 hospice (principale struttura per le cure palliative “residenziali”), per un totale di 2.307 posti letto. A questi vanno aggiunti i pazienti seguiti da équipe specialistiche in regime “domiciliare”, che sono poi la gran parte. Si calcola infatti che, su un’utenza potenziale di 100 pazienti, il 70-80% di essi possa essere assistito a casa, mentre il 10-20% restante presso strutture tipo hospice.
Siamo dunque a buon punto con le cure palliative in Italia? Non ancora e non del tutto. Molto si è fatto, ma molto resta ancora da fare. Si calcola, infatti, che ogni anno venga assistito da una “rete locale di cure palliative formalmente definita” non più del 20% degli utenti potenziali. Perché? Cosa non funziona ancora?
Attualmente è la legge 38/2010 a regolare questa disciplina nel nostro Paese. Un’ottima legge, a parere di quasi tutti gli operatori del settore, che “tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore”, che inserisce le cure palliative e la terapia del dolore tra i livelli essenziali di assistenza (Lea), che definisce entrambi come “obiettivi prioritari del Piano sanitario nazionale”.
Ma allora cosa impedisce all’80% dei potenziali utenti delle cure palliative di usufruirne? Probabilmente, sono due i punti deboli ancora insoluti, che ostacolano di fatto la fruizione di questo “diritto”: l’informazione e la formazione. L’informazione riguarda ovviamente i pazienti e la collettività nel suo insieme, la formazione riguarda specificamente il personale sanitario. Appare lampante come queste due dimensioni siano strettamente connesse tra loro. Perché un paziente possa ricorrere, nel bisogno, alle cure palliative occorre che ne sia già a conoscenza, per richiederle, oppure che qualcuno gliele proponga. Circa la prima ipotesi, la legge 38 aveva già previsto che il ministero per la Salute promuovesse (nel triennio 2010-2012) “la realizzazione di campagne istituzionali di comunicazione destinate a informare i cittadini sulle modalità e sui criteri di accesso alle prestazioni e ai programmi di assistenza in materia di cure palliative e di terapia del dolore connesso alle malattie neoplastiche e a patologie croniche e degenerative”. Ad oggi, l’attuazione di questa direttiva è stata parziale e disomogenea sul territorio, anche per l’esiguità dei fondi messi a disposizione, cosicché permane tra la gente comune una conoscenza confusa e lacunosa dell’argomento.
Circa la seconda ipotesi, sono gli operatori sanitari, in base al loro ruolo, a dover conoscere il contenuto e il valore delle cure palliative per poterle proporre al paziente. Dovrebbero cioè essere “specializzati” in questo settore (“palliativisti”). La legge 38 aveva sancito che, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore, il ministro dell’Istruzione, di concerto col ministro della Salute, avrebbe dovuto individuare “i criteri generali per la disciplina degli ordinamenti didattici di specifici percorsi formativi in materia di cure palliative e di terapia del dolore”. Risultato? Ancora oggi le cure palliative non sono istituite come “specializzazione” post-laurea di medicina; esse (o meglio, solo una parte di esse, cioè la terapia del dolore) sono configurate come semplice insegnamento (con un monte ore limitato) all’interno di altre specializzazioni mediche. È anche stato attivato un master di secondo livello in cure palliative, non ancora riconosciuto però come “professionalizzante”. Nei primi mesi di quest’anno, inoltre, è stato finalmente definito il percorso per il riconoscimento (certificazione) dell’esperienza triennale maturata dai medici nelle reti di cure palliative pubbliche o private accreditate. In sintesi, nel nostro Paese non esiste ancora un percorso ufficiale ed esaustivo di formazione per palliativisti. Intendiamoci, abbiamo dei bravissimi e preparati operatori in questo campo, ma solo perché si sono formati “volontaristicamente”, organizzando da sé il proprio percorso. Essi fanno ancora quasi tutti parte della generazione “pionieristica” delle cure palliative. Ma dopo di loro, che accadrà? Come si formeranno i nuovo palliativisti? Chi proporrà ai pazienti questa possibilità?
Le cure palliative sono già riconosciute per legge come un “diritto” dei malati, ma perché siano anche un “diritto di fatto”, occorre rimuovere al più presto questi ostacoli.
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