Referendum in Turchia, svolta autoritaria
Il "sultano" vince, fra le proteste, la prova elettorale di domenica 16 aprile. Passa la riforma che concentra nelle mani del presidente il potere esecutivo e alcune prerogative del parlamento. Secondo il politologo dell'Università Cattolica "vengono meno i contrappresi democratici". Preoccupazione anche per il ruolo di Ankara negli scenari internazionali.
Il “sultano” supera, di stretta misura, lo scoglio referendario e si avvia a restare al potere fino al 2029. Ma la Turchia è spaccata in due e nelle piazze di Ankara, Istanbul e Smirne la gente scende in piazza per protestare contro quella che è ritenuta una deriva autoritaria imposta dal presidente Recep Tayyp Erdogan. Il voto di domenica 16 aprile sulla svolta presidenzialista ha visto prevalere i “sì” con il 51,4%: a favore della “riforma” hanno votato soprattutto le regioni rurali e interne del Paese e gli emigrati all’estero; contro si sono espresse le popolazioni delle città e le regioni curde. I maggiori partiti di opposizione, i kemalisti del Chp e i filocurdi dello Hdp, sostengono l’irregolarità del voto soprattutto perché sono state ammesse nei conteggi oltre 2 milioni di schede non vidimate. Anche gli osservatori internazionali dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) parlano di referendum “non all’altezza degli standard” internazionali. Ma Erdogan tira dritto: “La Turchia ha preso una decisione storica di cambiamento e trasformazione”, ha dichiarato all’indomani della vittoria, che “tutti devono rispettare, compresi i Paesi alleati”. “È la vittoria di tutta la nazione – ha affermato il presidente – compresi i nostri concittadini che vivono all’estero”. Molte le proteste levatesi dai governi europei: Francia e Austria chiedono di sospendere i negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue. Sostegno a Erdogan giunge invece da Mosca, al quale si aggiungono i “complimenti” del presidente americano Trump. Molte le perplessità espresse anche da politologi e giuristi di levatura internazionale, compreso Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica e di Storia e istituzioni dell’Asia dell’Università Cattolica di Milano.
Con la riforma costituzionale votata domenica, il presidente Erdogan riassume nelle sue mani il potere esecutivo abolendo la figura del premier, acquisisce una parte delle funzioni legislative, restringe le prerogative del parlamento, indebolisce il bilanciamento democratico nell’architettura istituzionale del Paese. Si tratta di quadro davvero preoccupante?
Direi proprio di sì. La riforma era stata presentata come una serie di modifiche per traghettare la Turchia verso un sistema presidenziale ispirato a quello francese o statunitense. In realtà quella approvata domenica è una riforma che rafforza enormemente il ruolo del presidente e prolunga per almeno 10-15 anni la permanenza al potere di Erdogan. La riforma rimuove, in particolare, i contrappesi che sono il sale della democrazia, segnando una svolta autoritaria. Va detto che all’inizio della sua ascesa Erdogan era stato abile a presentarsi come figura moderata, ma oggi si mostra intollerante verso ogni forma di opposizione. Basta vedere come si è svolta la campagna referendaria – quasi nordcoreana – durante la quale sono state silenziate le ragioni del no. Sono stati arrestati numerosi giornalisti e intellettuali, messi dietro le sbarre deputati eletti al parlamento. È vero che in tutto il Medio Oriente il modello democratico non va per la maggiore, ma la Turchia aveva una buona tradizione democratica, oggi smantellata dall’interno. Aggiungerei altre due osservazioni…
Quali?
Nonostante il fortissimo battage propagandistico, il sì si è fermato poco sopra il 51%, frutto magari di manipolazioni elettorali. Il che significa che in Turchia rimane ben presente e diffusa una resistenza all’involuzione autoritaria. D’altro lato occorre notare come abbia fatto presa il ricorso di Erdogan alla retorica nazionalista, testimoniata anche dal voto dei residenti all’estero. Questo è un elemento che fa sempre presa sul popolo turco e che noi occidentali non dobbiamo mai trascurare.
Professore, cosa può accadere ora nel Paese? Si registrano proteste popolari, c’è chi grida ai brogli…
Il governo ha già dimostrato di saper e di voler usare la forza. E questo non dice nulla di buono.Occorre poi osservare come il partito di Erdogan e il suo potere siano fortemente radicati e compromessi con i gangli economici e finanziari del Paese. Il presidente sa orientare questi interessi forti a suo favore. Egli è stato capace di demonizzare il partito filo-curdo – e di colpirne i vertici – che pure aveva avuto una evoluzione da forza di rivendicazione etnica a forza di difesa sociale, dei deboli, degli esclusi. Onestamente credo che neppure le pressioni internazionali possano, ora come ora, condurre Erdogan a più miti consigli.
Quale potrà essere invece il ruolo della Turchia nella già compromessa situazione mediorientale?
In passato Recep Tayyp Erdogan ha mostrato una politica estera piuttosto avventurosa. È transitato dal motto “zero problemi con i vicini” all’attuale situazione di “zero vicini senza problemi”. Di fatto si moltiplicano le occasioni di collisione tra Ankara e i Paesi confinanti. Del resto lo stesso Erdogan ha a suo favore un elemento essenziale: infatti la Turchia appare oggi come un alleato inevitabile per tutti. Russia e Cina scommettono molto su questo partner commerciale e politico. L’Iran condivide, come diversi altri Stati della regione, forti interessi economici con la Turchia. Altri Paesi ne temono la forza militare. La Turchia è importante nello scacchiere siriano. E la stessa Europa sa che la Turchia è un grande hub energetico, senza contare la questione migratoria e, non da ultimo, il fatto che nei Paesi Ue vivono milioni di turchi. Ugualmente per la Nato il Paese euroasiatico ha un valore strategico essenziale. La Turchia ha un ruolo crescente, anche se Erdogan appare sempre più scollegato dalla realtà internazionale: un presidente autocratico, isolato è, purtroppo, sempre meno prevedibile.
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