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Discrezione, competenza, privacy, sono elementi molto complessi e molto delicati indispensabili per far garantire alle vittime un percorso tutelato nel rispetto e nella dignità della persona

Suor Michela Marchetti: la violenza non può essere l’ultima parola

La religiosa della Divina Volontà, da tantissimi anni si impegna in favore di donne e bambini vittime di violenza a Crotone. Il Presidente della Repubblica poco tempo fa le ha conferito il riconoscimento di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.  

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Suor Michela Marchetti: la violenza non può essere l’ultima parola

Oggi si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. I dati dell'Onu rivelano che il 35% delle donne nel mondo ha subito una violenza fisica o sessuale, dal proprio partner o da un'altra persona. E in Italia, secondo i dati Istat di giugno 2015, 6 milioni 788 mila donne hanno subito nel corso della propria vita una violenza fisica o sessuale. Si tratta del 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni, quasi una su tre. Ma se negli ultimi 5 anni sono leggermente diminuite le violenze fisiche o sessuali, aumenta invece la percentuale dei figli che vi assistono. Per combattere il fenomeno sul campo fondamentali sono i Centri Antiviolenza.

A Suor Michela Marchetti della Divina Volontà, che da tantissimi anni si impegna in favore di donne e bambini vittime di violenza a Crotone, abbiamo posto alcune domande per capire meglio le problematiche, il percorso tutelato e cosa si sente di dire a queste vittime.

Suor Michela contribuire alla realtà sociale garantendo l’integrazione delle donne è la missione del suo centro “Noemi”di Crotone. Come è cominciata questa avventura?

Ho iniziato con un gruppo di laici a partire da una comunità cristiana, la parrocchia Sacro Cuore San Francesco. Insieme alle mie consorelle ci siamo chieste, proprio come suore della Divina Volontà, come far sentire la nostra presenza discreta in questo territorio di Crotone dove siamo presenti da più di 40 anni. Questo ci ha permesso di condividere la vita con le famiglie anche in quelle che a volte vivono delle situazioni particolari. Ci siamo rese conto che c’era bisogno di un servizio che fosse di supporto a ragazze, in realtà il servizio anti violenza non è stato il primo e non è l’unico, perché la cooperativa Noemi ha vari servizi che sono rivolti alle donne e alle famiglie. All’interno dei vari servizi c’è anche quello più specifico di uno sportello di ascolto “Udite Agar”. Questo sportello ci ha collocato in modo più specifico a quelle che sono le problematiche nell’ambito della violenza.

Come uscirne da queste situazioni di abusi e di violenza?

La prima cosa che emerge dalla nostra esperienza è quella che ciascuna donna prima di tutto quando vive un’esperienza di violenza ha bisogno di percepire l’assoluto rispetto. Il fatto di non sentirsi giudicata ma ascoltata, accolta nel suo vissuto, e riconosciuta in quello che sta vivendo. Parliamo di percorsi tutelati che hanno come bisogno di affrancare la donna, nel riprendere le proprie forze, nel ritrovare il ciclo della sua vita, la propria dignità e la propria energia, la forza di resistenza, per riprogettare la sua vita dall’interno della sua situazione. E poi capire se può essere o se ci devono essere altre scelte da fare. In tutto ciò c’è bisogno della discrezione e della privacy sia per la sicurezza della persona, sia per la sicurezza del percorso, sia perché c’è bisogno di un luogo protetto.

Come intervenire in situazioni che presentano dei vissuti molto forti?

Bisogna intervenire con competenza. Quando ci si trova di fronte a situazioni molto grosse, a dei vissuti molto forti che hanno bisogno di essere accolti ed elaborati in tutta la loro valenza, anche di violenza, c’è bisogno di garantire  strumenti dal punto di vista psicologico e dal punto di vista legale che dia alla donna la possibilità di poter affrontare da protagonista una storia che in questo momento la vede come succube e che in qualche modo sta subendo la violenza. È come quando si guarda un’opera d’arte e ci si accorge che c’è una meraviglia davanti a noi ma che deve essere come ritirata fuori nella sua bellezza e nella sua forza. È lei stessa che avrà la forza dentro una rete sociale che offra la possibilità di non isolare la donna, ma di far si che riattivi dei circuiti di un certo tipo che gli permettono di attivarsi e di uscire, e re-attivare relazioni di comunicazioni e di collegamenti. Oltre a questo c’è un altro discorso che è quello di cogliere quelle opportunità che possono essere attivate per costruire una autonomia fisica, psicologia e affettiva, sia che resti all’interno della relazione, sia che invece debba uscirne o allontanarsi dal territorio. Quindi gli elementi in un intervento che accompagni una donna che sta vivendo situazioni di violenza sono elementi molto complessi e molto delicati ma che devono aver chiaro dove si vuole andare nel rispetto e nella dignità della persona.

Che significato dare a questa giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne?

Da un punto di vista di informazione, di prevenzione e di formazione, bisogna pensare in modo complesso. L’informazione deve essere fatta ma a tutti i livelli, anche e soprattutto nelle scuole. E qui si traduce in una forma di informazione e prevenzione per svelare quegli atteggiamenti dentro la nostra relazione che hanno già degli elementi di violenza. Bisogna cogliere quali elementi mancano nelle nostre relazioni che poi si traducono in atteggiamenti e in storie di violenza. È necessario evitare un’azione deresponsabilizzante dell’insieme. Non è informazione dire in uno sport “denuncia”, come se ancora una volta la responsabilità fosse tutta in mano alla donna, ancora una volta lei l’onnicolpevole della situazione. Non è proprio pensabile. Quante risorse mettono a disposizione dei servizi per le donne contro la violenza le istituzioni? Quante risorse prevedono per fare percorsi di formazione nelle scuole?  Non basta fare i servizi, che tra l’altro dovrebbero essere sostenuti.

Oggi viviamo in un momento dove si parla esplicitamente di terrorismo. Quante donne nelle mura domestiche vivono nel terrore?

Purtroppo come rivelano i dati sono migliaia le donne che vivono nella violenza. A loro dobbiamo offrire la possibilità  di farle vivere in modo libero e autonomo, garantendole  il rispetto. Questo chiede una maggiore cittadinanza da parte di tutti, un maggiore accorgerci nella rete sociale di chi ci sta accanto. Non può  avvenire qualcosa di drammatico e poi la gente che sta attorno dice “mi sembrava una coppia normale”. Che cosa sta a significare questo? Che la nostra percezione nella relazione sociale è diventata più sorda, segnali di malessere dentro le persone, dentro le relazioni. Oltre ad un bisogno di informazione e prevenzione c’è un ritornare a ricostruire quella relazione sociale dove l’altro diventa parte della mia vita. Oggi il terrorismo ha lo scopo di voler dividere e chiudere, perché ciascuno si chiude in sè per poter proteggersi. Credo che ciascuno di noi, particolarmente noi cristiani, dobbiamo reagire dicendo “la vita dell’altro mi interessa, non per curiosità, ma perché non posso farne a meno. E perché come cristiano nel mio dna l’altro è parte di me”.

La figura del sacerdote o di una consacrata rispetto al laico, fa la differenza in queste situazioni di violenza?

Nella mia missione ho riscontrato di avere un bagaglio di fiducia che la gente mia da proprio perché sono una religiosa. Vieni chiamata sorella perché l’altro percepisce che ti interessa lei, e sai che quello che ti dirà l’altra persona è qualcosa che resta lì. Ho come l’impressione che abbiamo probabilmente una  possibilità in più di ascolto, di incontro, dove le persone possono affidarsi a noi. Penso ad esempio ai sacerdoti in confessione, quante donne possono dentro la stessa confessione raccontare e confidare proprio perché c’è il segreto confessionale, uno strumento di misericordia dove rende libero l’altro per poter riprendere fiato. I sacerdoti e noi religiose abbiamo quasi una responsabilità in più perché ci si apre l’anima quando ci incontrano. A volte penso di essere troppo di corsa e troppo disattenta rispetto a quelle persone che hanno bisogno di me, perciò penso che a volte forse è necessario fermarmi ed ascoltare.

Suor Michela lei da poco è Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per volontà (motu proprio) del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un riconoscimento non solo per lei ma tutta la sua equipe?

Io non sono una donna del Nord che è venuta al Sud ad insegnare, ma sono una donna del Nord che è venuta al Sud ad imparare. Sono arrivata a Crotone dal giorno della mia professione religiosa, nel 1991, e in Calabria ho fatto la mia formazione teologica, sociale e di consulente familiare. Tutta la mia formazione è stata fatta al Sud, e soprattutto è stata fatta nell’ambito del condividere la vita insieme alla gente che mi ha cresciuta. Questa è stata la scuola, la scuola della strada, la scuola delle famiglie. E poi mi paragono ad un vetro, spero tanto che si guardi attraverso questo vetro per vedere quanta gente, quanti cristiani, che la Chiesa ha già disseminato in uscita, continuino a fare e a costruire del bene, però senza fare rumore. La scommessa per la quale ho accettato non di parlare di me stessa ma della mia gente, della mia terra, un volto della Calabria che non è solo quello di cui a volte si parla, non è fatta solo di primati negativi. Ho la beatitudine di incontrare dei volti di uomini e di donne, di religiosi e di laici, che dentro la quotidianità vivono il Vangelo, un Vangelo che ci dice di uscire da noi stessi e dalle nostre mura. Questo riconoscimento pertanto, non è a me ma davvero a tutta la gente di Crotone oltre che alla cooperativa Noemi, e soprattutto a quelle ragazze, ai minori, alle famiglie, ai volontari, che a partire  da una situazione che potrebbe sembrare di marginalità,  sono proprio quelli che hanno fatto dei percorsi così forti da diventare vite vere. Mi piace fare un paragone con i dieci lebbrosi. Nella nostra vita tutti riceviamo, ma ci sono delle storie in cui alcuni hanno la consapevolezza di ricevere e di vivere una situazione di marginalità, altri no. Solo uno dei dieci è tornato indietro a ringraziare. A volte le persone che vivono situazioni molto forti di marginalità, sono quelli che si accorgono dei doni che ricevono e mettono una marcia in più nell’affrontare la vita in modo creativo e in modo vitale con uno spessore ed una scelta di vita e di fede sono impari. Devo ringraziare tutte le parsone che condividono con me la vita e con le quali impariamo qualcosa ogni giorno a vivere un pezzettino di più questo Vangelo che sentiamo per noi fondamentale.

Alle donne che in questo momento stanno vivendo situazioni di abusi e di violenza tra le mura domestiche cosa si sente di dire?

Guardati attorno e fidati nel trovare delle persone che possono in qualche modo strati accanto. E che non ti obbligano a fare quello che vogliono loro ma semplicemente starti accanto perché la violenza non può essere l’ultima parola.

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Suor Michela Marchetti: la violenza non può essere l’ultima parola
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