Trent'anni di Schengen, c'è molto da imparare
Il trattato per la libera circolazione contiene elementi che potrebbero essere utilizzati anche per affrontare il nodo attuale delle migrazioni
Quando il 14 giugno 1985 fu firmato l'accordo di Schengen, erano in cinque i protagonisti intorno al tavolo, più esattamente tre più due. I tre Paesi del Benelux ai quali un memorandum dava il tono dal 1984 per progredire verso una maggiore libertà di circolazione e una più stretta cooperazione tra le dogane e le polizie. E, inoltre, c'era l'accordo di Sarrebruck concluso nel luglio 1984 tra la Germania e la Francia, che prevedeva la graduale abolizione dei controlli alla frontiera. Oggi 26 Paesi fanno parte dell'area Schengen integrata nei Trattati dell'Unione europea. In base alle narrazioni storiche, tutto sarebbe iniziato a causa di un problema molto concreto, cioè i lunghi ritardi degli autotrasportatori alle dogane a Kehl, che avrebbero causato una reazione spontanea di Helmut Kohl, allora cancelliere tedesco. Come spesso accade nella costruzione europea, un problema specifico avrebbe consentito di fare il primo passo verso un'integrazione più generale. Tuttavia, l'accordo di Schengen e l'importante convenzione di applicazione firmata cinque anni dopo, nel giugno 1990, non avrebbero visto la luce senza una doppia, profonda intuizione degli europei.
C'era anzitutto il vecchio sogno militante di un'Europa senza valichi di frontiera. Questo sogno aveva già permesso negli anni Cinquanta un'adesione popolare al trattato di Roma del 1957, ma in realtà ad animare gli spiriti europei era più la prospettiva di viaggiare senza mostrare la propria carta d'identità a doganieri e poliziotti che non quella di un grande mercato comune. E poi, dopo il periodo della legge marziale 1981-1983 in Polonia, vi era certamente nell'aria il sentimento di dover progredire sulla libera circolazione per mettere in rilievo la mancanza di libertà e di rispetto per la dignità delle persone nell'Europa centrale e orientale sotto il regime comunista.
Tuttavia, Schengen ha rappresentato fin dall'inizio la ricerca di un equilibrio tra libertà e sicurezza. La rimozione dei controlli alle frontiere interne ha richiesto una serie di norme comuni per il transito delle frontiere esterne degli Stati, per l'asilo e l'immigrazione e per il rilascio dei visti. Consentire la libera circolazione tra i Paesi aderenti ha inoltre richiesto il rafforzamento della cooperazione giudiziaria e di polizia.
Questa armonizzazione delle norme in materia di frontiere esterne, per le procedure di immigrazione e l'asilo all'interno dello spazio Schengen rimane, mentre il numero degli Stati aderenti all'accordo di Schengen è passato appunto da 5 a 26. Ma molti Stati aderenti restano aggrappati alle loro prerogative. Non si fidano. Così, nel recente passato è stato avanzato dalla Danimarca il progetto di ripristinare i controlli alle dogane. Lo stesso anno, il governo francese ha voluto chiudere le frontiere agli immigrati nordafricani in risposta alla decisione unilaterale del governo italiano di rilasciare permessi di soggiorno di sei mesi per 25mila migranti tunisini. Alcuni Paesi dell'Unione non partecipano che parzialmente allo spazio Schengen: hanno fatto la scelta di un opt-out con la possibilità di un opt-in. Tutto questo a volte dà l'impressione di un tira e molla che suscita incomprensione o addirittura rifiuto. Eppure Schengen è e rimane un dono per i popoli europei, che circolano liberamente in un vasto spazio. Solo che, anche dopo trent'anni, Schengen è sempre un diamante allo stato grezzo. Occorre perfezionarlo.
L'esempio dell'asilo è eloquente. Oggi il regolamento di Dublino 2 richiede di trattare le domande nel Paese di entrata sul territorio dell'Unione europea, ma si basa sulla buona volontà di tutti gli Stati. Ora, questo non funziona. Occorre fare un passo avanti. È per questo che l'agenda europea sulle migrazioni che la Commissione europea ha proposto il mese scorso ed è attualmente sotto la lente di ingrandimento dei governi, merita attenzione. In un primo tempo vorrebbe rispondere a una situazione di emergenza - proprio come nel 1984 a Kehl - e certamente non ha una risposta a tutte le domande, ma porta in sé il potenziale per andare più lontano. Esso consentirà di trovare un approccio più solidale per rispondere alle richieste di accoglienza. È nella logica dell'area Schengen ed è per questo che - probabilmente - troverà accoglienza favorevole da parte dei capi di Stato e di governo.
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