Usa vs. Cina: la costruzione del bipolarismo che non c'é
Il multipolarismo che avanza è più problematico della distinzione del mondo in bianco e nero, disperde gli sforzi contenitivi e affanna in un’iperestensione militare orfana dei primati economici di un tempo.
“Dopo la vittoria dell’Urss, la cosa peggiore per gli Usa sarebbe la fine dell’Urss”: così Eisenhower alludeva alla sciagura di dover gestire l’enorme vuoto conseguente a un’ipotetica scomparsa del rivale con cui Washinton si divideva ordinatamente il mondo. Oggi quel detto risuona tra gli analisti che paventano l’assenza di un nemico speculare, utile a disciplinare le strategie statunitensi nello scacchiere pluriverso e segmentato che ha soffocato l’euforia con cui, una trentina d’anni fa, si celebrava la “fine della storia” come porta spalancata all’unipolarismo planetario marca Usa.
Il multipolarismo che avanza è più problematico della distinzione del mondo in bianco e nero, disperde gli sforzi contenitivi e affanna in un’iperestensione militare orfana dei primati economici di un tempo. Se proprio non può essere unipolare, meglio l’opzione bipolare allo sfiancamento. Di qui l’urgenza di selezionare gli impegni diretti e delegare i restanti ad alleati ingaggiati con rapporti di fedeltà esclusiva e totalizzante. Finita la stagione della lotta senza quartiere all’internazionale jihadista, il ripristino della Cortina di Ferro serve a compattare la compagine esigendo scelte di campo che impediscano di coltivare partnership settoriali specialmente con chi issa la bandiera del futuro multipolare: leggasi la Cina.
Quest’ultima non gradisce affatto le vesti di nemico esistenziale cucitele addosso, come capofila dei nuovi “Stati-canaglia” che attentano al mondo libero. Il Gigante asiatico sa di non guidare un blocco egemonico analogo a quello degli Usa, con le loro 850 basi sparse nel mondo sul territorio altrui. Sa di non poter esportare modelli di omologazione culturale atti a diffondere un “sogno cinese” concorrente al mito dell’“American way of life”. Perciò enfatizza la cooperazione senza cessioni di sovranità, coltivando l’interesse alle interdipendenze articolate in geometrie dai perimetri porosi. Che è esattamente ciò su cui la Casa Bianca tenta di intervenire, progettando sanzioni e dighe protezionistiche, in deroga al libero scambio laddove questo avvantaggi altri e disallinei la globalizzazione e il Washington consensus.
Nonostante le dissimulazioni, queste strette preoccupano le economie occidentali già azzoppate dai contraccolpi energetici del divorzio con la Russia, per le quali l’inibizione delle forniture cinesi sarebbe il colpo letale. L’azzardo di Scholz, volato a Pechino per auspicare nuovi investimenti, sta a dimostrarlo. Altrettanto significativo il disagio di Bruxelles per la mossa del cancelliere, accolto al suo rientro dalla notizia dell’arresto in Germania di cinque presunte spie collegate a Pechino, come nelle migliori spy-stories ambientate nella Guerra fredda.
Viepiù iconica la visita cinese di Blinken, che ha intimato l’ultimatum chiedendo di ridurre i commerci con Mosca e di frenare la sovrapproduzione che, inondando i mercati, penalizza gli Usa e la loro working class. Le richieste, senza la speranza di essere accolte, hanno avuto una funzione dichiarativa rivolta a terzi. In vista delle presidenziali, Biden anche così spera di sottrarre voti alle sirene trumpiane. Ma si tratta soprattutto di un’assertività che enuncia il dualismo tratteggiato, sul versante militare, dai fondi sbloccati dal Congresso per Ucraina, Israele e Taiwan: per Washington tre snodi di un unico fronte, dove la Cina si colloca sempre sul versante opposto. Lo stesso vale per i passi avanti in Asia verso la Nato del Pacifico: circoscrizione di una Alleanza globale quanto la guerra prefigurata ai gregari su diverse latitutidini. In questa reductio ad unum la partita di Taiwan assume una duplice valenza. L’isola – che per il diritto internazionale non ha sovranità statuale – rileva per il controllo dell’Indo-Pacifico, specie ora che l’industria navale cinese ha surclassato quella statunitense. Ma essa assurge anche a simbolico epicentro della dialettica bipolare, come già fu Berlino nella Cortina di Ferro.
Ovviamente Pechino rivendica la sovranità delle sue scelte economiche, compresa la libertà di scambiare con chiunque, pur escludendo supporti all’industria bellica russa mentre Washington fornisce armi a Ucraina e Israele. E suggerendo di non confondere il G7 con l’Onu o l’eccezionalismo Usa con la comunità internazionale. Il Dragone vuole chiaramente sfilarsi la camicia dell’antagonista bipolare. Proprio la metafora della camicia indossata male sbagliando il primo bottone è stata il leit motiv della risposta: che significa anzitutto censurare richieste confezionate tramite pretese e minacce, con la raccomandazione di non deformare l’immagine della Cina, dipingendo come un nemico giurato chi invece sarebbe un normale competitore in un contesto di libera concorrenza.
La ritorsione ha preso forma pochi giorni fa, con sanzioni a carico di 16 aziende cinesi, accusate di vendere sul mercato russo componentistiche a uso civile che potrebbero giovare anche al comparto militare. Ora è il momento della contromossa cinese intesa a sfatare la narrazione bipolare. Il tour europeo di Xi Jinping, dopo 5 anni di assenza dal continente, prevede tre tappe: Francia, Serbia e Ungheria, tutte a loro modo desiderose di autonomia strategica, probabilmente scelte anche per evidenziare che la varietà delle loro posizioni verso la Russia non pone problemi di incompatibilità per la Cina. Al solco separativo del bipolarismo Xi contrappone la diversificazione dei rapporti richiesta dalla direzione che la storia ha già intrapreso. Chiudere qualcuno fuori significa anche rinchiudersi dentro, finendo per restare a corto di provviste. Non sarà una metafora cinese, ma potrebbe sintetizzare il messaggio che Pechino rivolge all’Occidente per vanificare la grande muraglia a stelle e strisce.
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