I giovani chiedono di essere accompagnati, non reclutati
Don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della Cei: "Siamo chiamati a una pastorale di 'uscita'. La cura degli altri ci chiede di considerare il giovane nella sua totalità. Non possiamo salutarlo nel giorno della Cresima e dargli appuntamento alla Gmg". In passato "ci siamo fidati un po' troppo dei grandi eventi". Invece "dobbiamo guardare alle persone e prendercene cura camminando con loro. Poi verranno gli eventi"
Si è chiuso oggi (12 febbraio), a Brindisi, il XIV convegno di pastorale giovanile con a tema un passo delle “Città Invisibili” di Italo Calvino: “Il cantiere e le stelle”. Nel suo intervento conclusivo, il responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile della Cei, don Michele Falabretti, ha ribadito la necessità di “progettare i processi altrimenti il rischio è quello di procedere per tentativi. Il progettare ha a che fare con il mandato. La famosa pastorale organica intelligente e coraggiosa non si è declinata in modo omogenea. I vescovi sono pieni di mille altri pensieri, ma la pastorale giovanile deve percepire la linea pastorale per poi programmare il cammino. Noi abbiamo bisogno come Chiesa d’imparare a star dentro ai nostri territori, di star dentro alla Chiesa da fratelli”. Nel corso dei lavori è stato presentato anche il cammino dei giovani italiani verso la Gmg di Cracovia del 2016. A don Falabretti abbiamo chiesto di tracciare un bilancio del convegno.
Quali prospettive di lavoro emergono dai lavori?
“Spero che sia emerso il senso del cammino che stiamo percorrendo: l’anno scorso abbiamo riflettuto sul ‘saper essere’ ovvero sulla cura educativa e sullo spendersi per i ragazzi. Ora spendersi per i ragazzi occorre farlo con intelligenza ed ecco quest’anno la riflessione sul ‘saper fare’. Tutte queste cose messe insieme devono diventare un modo di pensare e di fare. Nell’azione educativa dobbiamo ragionare in termini di sfide e non di problemi. Lavorare sulla programmazione significa trovare la strada: il metodo è tracciare un percorso che permette di fare dei passi. Organizzarsi non è la mania di chi vuol tenere tutto sotto controllo, ma è la condizione perché la cura possa tradursi in azioni concrete. Di questo convegno portiamo a casa il processo, le relazioni, gli sguardi. Ci prendiamo per mano e la fatica la condividiamo con gli altri”.
Programmare, progettare: sono state parole chiave di questi giorni. Ma che Chiesa vogliamo costruire con i giovani?
“È evidente che non possiamo più fare una pastorale di conservazione ma siamo chiamati a una pastorale di ‘uscita’, che va verso gli altri e non preoccupata di conservare le proprie strutture. La cura degli altri ci chiede - ed è questa la grande frontiera della pastorale giovanile italiana - di considerare il giovane nella sua totalità. Intendo dire che non possiamo salutare il giovane nel giorno della Cresima e dargli appuntamento alla Gmg. Dobbiamo aprire la sfida dell’adolescenza che va verso la giovinezza, dobbiamo riempire i vuoti che abbiamo lasciato”.
In questa sfida la Chiesa italiana lamenta un ritardo?
“Ci siamo fidati un po’ troppo dei grandi eventi come la Gmg. Abbiamo creduto che questi potessero aiutarci a costruire dei cammini pastorali. In realtà il nostro faro devono essere le persone con le loro età, esistenze e condizioni. Dobbiamo guardare alle persone e prendercene cura camminando con loro. Poi verranno gli eventi”.
Quindi niente più spazio alla pastorale dei “navigatori solitari”?
“Non possiamo usare i giovani per rimpolpare le fila della nostra realtà ecclesiale. Questo è fare reclutamento, e i giovani oggi chiedono di essere accompagnati e non reclutati. Su questo bisogna che la comunità impari sempre più a entrare in sinergia con le sue varie realtà associative e religiose. Il vero educatore è quello che sente di avere un mandato e non pensa di essere un battitore libero. È finito il tempo di fare educazione per carismi. L’educazione non è un carisma ma un compito che si può assumere ma insieme agli altri. Tutti son chiamati a lavorare con i giovani. L’educazione è un dovere di restituzione di ciò che altri hanno fatto per me”.
È indubbio, tuttavia, che i giovani, gravati in modo particolare dalla crisi, siano una periferia esistenziale cui guardare con estrema sollecitudine, come ripetuto più volte da Papa Francesco…
“Non posso non sentire questa provocazione come vera. Non posso non percepire che il Papa effettivamente sta indicando in ogni fragilità umana un luogo dove andare a vivere e servire. Quindi anche tra i giovani. Sono convinto che non esista povertà più grande che dover crescere perché in questa crescita si rischia di restare soli. La speranza è cercare di non lasciare nessun giovane diventare grande da solo”.
La Chiesa italiana cammina verso Firenze. Qual è il contributo che può dare la pastorale giovanile al prossimo Convegno ecclesiale nazionale?
“Il contributo lo scriveremo insieme nei prossimi mesi. Certamente l’esperienza passata, la vitalità dei nostri giovani rappresentano una risorsa da spendere in vista di Firenze ma non da strumentalizzare, come dicevo poso fa, a fini di reclutamento. L’appello non è tanto ai giovani ma soprattutto a chi li educa o chi vuole assumersi il compito di educarli. I giovani fanno parte del popolo di Dio e non vanno trattati come un categoria a se stante. La categoria vera è la loro cura, l’educazione”.
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