Settimana Santa, la storia di un mistero di grandezza e di amore
La Settimana Santa finisce e finisce bene. Perché altrettanto bene si evolva e si concluda la vita di ciascuno, la storia dei popoli oppressi. La brevità del tempo nella tomba è il segno indelebile che la Risurrezione ci appartiene, anzi che ciascuno è chiamato a diventare operatore di risurrezione.
“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Un tweet, non più di 140 lettere dell’alfabeto, annuncia il lamento finale di un Redentore che agli occhi dei suoi contemporanei finisce sconfitto, crocifisso. Questo sembra il fulcro di una Settimana, quella Santa, che i cristiani celebrano con grande solennità e con un ciclo di feste “memoriale”. Dunque la forza, il fascino di una grande religione, di una numerosa comunità di credenti sta in un uomo, che pur essendo Dio, muore come un uomo sconfitto? Agli occhi di un non credente il bacio traditore di un discepolo, che celebra con il suo maestro la grande cena di Pasqua, poteva fermarlo per sempre. Fermare un Cristo che osava dirsi figlio Dio? Un “soccombente” poteva dire qualcosa a un popolo come l’ebraico, dalla lunga e orgogliosa storia? E se non poteva dire più di tanto a quegli uomini, a quel popolo, comunque meno scaltrito del nostro popolo moderno può pretendere di accreditarsi come il nostro Redentore? La Settimana Santa è, allora, un colossale inganno? No! Quella storia, infatti, di un “debole”, che è persino figlio di Dio, celebra un mistero di grandezza e di amore infiniti.
Prende il via con una solenne cena, che è poi l’ultima per il celebrante, ma non sarà l’ultima quanto piuttosto la prima di un’infinità di Cene, che da oltre duemila anni parlano al mondo. Anzi sono proprio queste “Cene” la forza e il coraggio per quei 200mila cristiani che ogni anno subiscono persecuzioni in tutto il mondo. Piuttosto molti governi, europei in specie, portatori orgogliosi della bandiera della libertà di coscienza, laici tutti d’un pezzo, dovrebbero vergognarsi dell’ignavia di Pietro lungo il calvario che rinnega il suo Gesù, perché li abita pienamente, vergognandosi delle loro radici cristiane. Difensori, vessilliferi di tutte le libertà, silenziosi nei confronti dei crocifissori di oggi.
Ecco vi è, in questa Settimana Santa, del coraggio, anzitutto il coraggio di un figlio dell’uomo, Gesù di Nazareth. Il quale invita alla conversione, alla testimonianza del cielo di fronte all’indifferenza. Brilla ancora un segno, un gesto in quell’ultima Cena. È l’umile chinarsi per la lavanda dei piedi, che ricorda un altro tweet di Cristo: non sono venuto per essere servito ma per servire. Un tweet, ad esempio, nel quale ogni genitore è chiamato a mettere al mondo un figlio per una seconda volta, spiritualmente, per donare il servizio dell’educazione umana e cristiana, della formazione della coscienza. Il compito dell’educazione cristiana diventa un grandioso servire Cristo. E c’è un giorno di questa Settimana, talvolta tormentato da una primavera capricciosa, che si chiude nel silenzio del dolore e del lutto. L’Amato, il crocifisso, colui che ha sfidato la cattiveria, l’ingratitudine della folla, il cinismo di Pilato, la paura dei discepoli, è confortato quasi unicamente dal coraggio delle discepole, le pie donne, con accanto la madre dolente, la Madonna, che subisce nella carne del suo cuore l’insulto e la vergogna di un figlio trattato da delinquente.
È il silenzio della terra, quello del Venerdì Santo del dolore per il cumolo di oltraggi abbattutosi su quella persona innocente per tutti noi. Ed è il silenzio dello scoraggiamento degli apostoli, forse delle stesse pie donne che ora paiono dimentiche della promessa della sua risurrezione. Infatti i giorni della tristezza, dell’ignavia, sono bruciati dal calore che si sprigiona dalla luce della Notte Santa che canta la vittoria del Risorto. Sì, la Settimana Santa finisce e finisce bene. Perché altrettanto bene si evolva e si concluda la vita di ciascuno, la storia dei popoli oppressi. La brevità del tempo nella tomba è il segno indelebile che la Risurrezione ci appartiene, anzi che ciascuno è chiamato a diventare operatore di risurrezione.
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