Chi è l'uomo senza colore?
Lo sbarco di minori africani e una domanda di Léopold Sédar Senghor.
“Caro fratello bianco,/ quando io sono nato, io ero nero./ Quando sono cresciuto, io ero nero./ Quando io sono al sole, io sono nero./ Quando sono malato, io sono nero./ Quando morirò, io sarò nero./ Mentre tu uomo bianco./ Quando sei nato, tu eri rosa./ Quando sei cresciuto, tu eri bianco./Quando vai al sole, tu sei rosso./ Quando hai freddo, tu sei blu./Quando hai paura, tu sei verde./ Quando sei malato, tu sei giallo./ Quando morirai, tu sarai grigio./ Allora, di noi due, chi è l’uomo di colore?”.
Léopold Sédar Senghor, poeta e presidente del Senegal nato nel 1906, con il linguaggio della poesia, poneva anni addietro una domanda che torna oggi con tutta la sua forza.
Torna, questa domanda, nel leggere i servizi giornalistici sulla trappola dello sfruttamento e della violenza in cui anche in Italia cade una parte consistente delle migliaia di minorenni africani in fuga dai loro Paesi.
È un’adolescenza più volte tradita e, soprattutto quella femminile, un’innocenza più volte violata.
“Ogni giorno – scrive un quotidiano nazionale – sbarcano 30 ragazzi non accompagnati, provenienti specie da Niger e Gambia, ma mancano fondi e leggi per l’accoglienza. Così migliaia di adolescenti fanno perdere le loro tracce, qualcuno arriva in Nord Europa, molti finiscono nelle mani della criminalità”.
Sono trascorsi poco più di cinquant’anni dagli incontri di Senghor con Giorgio La Pira sui temi della pace, della solidarietà e della dignità di ogni essere umano, ma oggi la cronaca mette davanti agli occhi del lettore e del telespettatore gli occhi di ragazzi neri derubati della loro dignità anche da adulti bianchi.
Non solo il colore della pelle ma anche il colore dell’anima, il colore della speranza, il colore della paura, il colore dell’umiliazione si impastano confusamente sulla tavolozza dell’Italia e dell’Europa.
Léopold Sédar Senghor, il cantore della “negritudine”, avrebbe scritto oggi un’altra poesia e dopo averla posta nei suoi “Canti d’ombra” l’avrebbe tradotta nella denuncia di un’eclisse di umanità .
La cronaca racconta e lascia intendere che un effetto di quell’eclissi è il diffondersi di una cultura individualistica che non batte ciglio di fronte all’ingiustizia e al male.
La cronaca racconta di persone umiliate e racconta di persone che umiliano.
In tutto questo c’è un avvertimento a chi legge o guarda perché non cada nella trappola dell’indifferenza e del rifiuto tesa da chi umilia il diverso. Non bisogna cadervi: questo è il messaggio anche per oggi di Léopold Senghor il cui appellativo “Sédar” significa “colui che non si fa umiliare”.
Ecco perché nel 1962 chiedeva da Palazzo Vecchio in Firenze di non pensare la cultura africana come un deserto da riempire con la cultura occidentale e di non pensare la negritudine come una povertà ma come una ricchezza.
Grazie anche a questi pensieri oggi cresce la consapevolezza che il mondo, in particolare quello occidentale, sta cambiando colore e di questo occorre prendere atto con responsabilità e con fiducia. Al contrario, c’è l’opinione che il mondo, in particolare quello occidentale, non deve rischiare di perdere il proprio colore con il sopraggiungere di altri.
Tra le righe del racconto giornalistico del ragazzo nero preso nella trappola tesa dall’adulto bianco, riaffiora la domanda di Léopold Sédar Senghor: “Allora, di noi due, chi è l’uomo di colore?”. Oggi si potrebbe leggere così: “Caro fratello bianco, allora di noi due chi è l’uomo senza colore?” Non è forse più la pelle ad essere chiamata in causa ma qualcosa di più profondo, qualcosa che distingue l’uomo da ogni altro essere vivente.
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