La fusione con il creato
Nelle liriche di Claudio Damiani la meraviglia nei confronti della natura.
“Noi non intraprendiamo,/ saltelliamo e mangiamo/ anche noi siamo un po’ stanchi/ ma andiamo avanti lo stesso/ cerchiamo di stare uniti/ e ci aiutiamo l’un l’altro/ la gioia è in questo stare insieme/ e accontentarsi di poco”.Quando si parla di poesia è bene astenersi da fare nomi, paralleli, riferimenti troppo vincolanti e troppo accademici, e anche nel caso della più recente opera di Claudio Damiani, “Ode al monte Soratte” (Fuorilinea, 67 pagine) meglio sarebbe guardarsene. Il fatto è che questi versi ci fanno pensare non ad un modello poetico, ma a ciò che sta fuori dalle categorie e dai generi. In quei versi d’apertura parlano i passeri che animano i cieli del monte laziale, e questo, è inevitabile, ci rimanda al Poverello d’Assisi. Non solo per il riferimento alle creature del cielo, ma perché ogni lirica e ogni prosa di questo singolare libro è occasione di riflessione sul posto dell’uomo nella natura. E sull’esistenza stessa.Diciamo subito che “Ode al monte Soratte”, fin dal titolo, rappresenta una rarità nel nostro panorama letterario, tornato alle riflessioni sui massimi sistemi dopo la felice stagione della poesia dialettale e per così dire “territoriale”, che, lungi da rappresentare un problema - il provincialismo o il campanilismo - ha avuto e avrebbe anche oggi il merito di incarnare il vissuto, il suono (della natura e delle parole poetiche), lo spirito del luogo, il contatto santificante, in senso laico, ma anche profondamente religioso, della verità della natura.E sì che Damiani, uno dei più noti poeti italiani contemporanei, non è sabino: nato in Puglia, a San Giovanni Rotondo, da papà toscano e madre romana, si è trasferito a Roma e poi a Rignano Flaminio, proprio sotto il Soratte. Ma è peculiarità della poesia di Damiani a farsi da sempre portavoce dell’anima dei luoghi, visto che ha cantato la nativa Puglia in “La miniera” nel 1997, la paterna isola d’Elba con “Eroi” (2000) ed altre terre da lui abitate o vi sitate.Non aspettatevi però una illustrazione oleografica, una seppur nitida foto: qui si tratta di un profondo dialogo ai limiti delle possibilità delle parole di dire il loro oggetto, fatto di sguardi, di silenzi, di solitarie passeggiate e di occhi sollevati ai cieli sabini o abbassati a percepire i suoni del territorio vivo e pulsante. Si tratta di un raro momento di vera fusione con il creato, in semplicità e in pace.La poesia vera riesce anche in questo, ad andare oltre i tentativi decadenti di trovare la parola assoluta che dica l’esistenza (e che invece sprofondavano nella tentazione della pagina bianca). Qui non avviene nessuna impresa intellettuale, perché la parola sa i propri limiti e conosce le paludi del narcisismo autoreferenziale. In questo libro si torna alla semplicità del comunicare. Una duplice comunicazione, perché se da una parte il poeta cerca di aprire il proprio animo al lettore, dall’altra è in questione il dialogo con il Genius loci, lo spirito che abita il luogo. La seconda questione è più complessa di quanto sembri, e Damiani la affronta rinunciando ad intellettualismi e sofismi. Lo sforzo di entrare nelle cose è antico: il panismo - il tentativo di fondersi con il tutto - aveva ritrovato stagioni più o meno feconde tra Otto e Novecento, con Whitman e D’Annunzio, ma qui c’è qualcosa d’altro.Manca il compiacimento estetico, la tentazione a divenire albero o creatura dei boschi. Qui vi è una virile accettazione della differenza, anche se nel contempo emerge la coscienza di essere parte di un tutto non comprensibile fino in fondo: l’accettazione della creazione non è una resa, ma un sì.La provvidenzialità (i Greci avrebbero detto qualche millennio fa la Necessità) di questo disegno è percepita dietro le apparenze di ciò che deve passare affinché si continui ad affermare la vita. Il luogo è una parte di un tutto che continua a ripetere, a chi lo voglia ascoltare, la sua evangelica cura di ogni min imo essere immerso nel ciclo delle stagioni, dal monte Soratte alla più piccola delle creature, “come una mensa in cui mangiamo tutti/ in parti uguali, contemporaneamente”.Che è un poetico, nel senso più nobile del termine, invito a preoccuparci un po’ di meno dei nostri domani fatti di merci e capitoli di spesa.
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