I limiti di una teologia troppo razionale secondo Pier Damiani
La fede, secondo Pier Damiani, deve tenersi alla larga da ogni complicazione filosofica e da ogni tentativo umano di comprensione dei misteri divini
San Pier Damiani (1007-1072), il famoso autore della Lettera sull’onnipotenza divina (1067) fu, oltre che grande teologo, il cardinale-vescovo di Ostia (nominato tale da Stefano IX nel 1058). È Dottore della Chiesa ed venerato come santo dalla Chiesa Cattolica (viene ricordato il 21 febbraio). Ho sempre trovato la figura di Pier Damiani particolarmente stimolante, considerando le sue riflessioni sull’uso e sull’abuso della ratio dialettica di grande interesse speculativo. Gran parte del pensiero di Pier Damiani è infatti dedicato al tentativo di ridimensionamento della cupiditas scientiae, cioè del desiderio di conoscere, da lui considerato come la radice di ogni male (riferendosi specificamente alla caduta di Adamo come antefatto biblico di grande significato simbolico). Pier Damiani visse il momento dell’insediamento della dialettica nella teologia ed è per questo che la sua prospettiva, considerata all’interno di questa vasta dinamica teologica, assume la forma di una risposta vigorosa ad una teologia sempre più intellettualizzata. Risposta che, bisogna subito chiarirlo, va nella direzione contraria a tale intellettualizzazione, e prende la forma di un invito alla sancta simplicitas della fede. La fede, secondo Pier Damiani, deve tenersi alla larga da ogni complicazione filosofica e da ogni tentativo umano di comprensione dei misteri divini. In 1 Cor 1, 21 è scritto che il mondo non conobbe Dio grazie alla sapienza umana, ma a Dio piacque salvare i credenti grazie alla stoltezza. Un passo, questo, che coglie pienamente il senso della riflessione di Pier Damiani per il quale le categorie umane, anche quelle più raffinate e concettualmente ineccepibili, risultano altamente inadeguate per il discorso teologico. È inoltre assai improbabile secondo Pier Damiani che Dio si possa commisurare e indagare sulla base delle nostre ragioni umane e che si possa quindi costringere nelle strette maglie di un razionalismo dialettico esacerbato. Impossibile non far riferimento al De divina omnipotentia dal quale sembra quasi emergere l’idea che lo stesso principio di non contraddizione, che pure sembra governare i nostri umani ragionamenti, non possiede in fondo un valore ontologico necessariamente vincolante. Questo per Pier Damiani non vuol dire affatto che un albero non è un albero o il sole non è il sole. Questa tesi veicolerebbe l’idea di un mondo ontologicamente indeterminato, confuso, ambiguo e privo di logiche strutturali e normative stabili. In verità Pier Damiani – che peraltro possedeva una grande cultura liberale – ha profondo rispetto della scientia. Egli si limita soltanto a mettere in guardia i dialettici, coloro cioè che fanno un uso-abuso della ragione nei discorsi teologici, dal rischio che corrono allorquando arbitrariamente si convincono della possibilità di estendere anche a Dio la rigidità stringente che le categorie proprie del pensiero logico e filosofico. Ebbene, Pier Damiani sostiene invece che la maiestas di Dio è tale che potrebbe, se lo volesse, rivoluzionare tutto l’impianto strutturale e normativo del nostro universo (per come noi lo conosciamo) e ricrearne un altro su basi – logiche ed ontologiche – nuove. Ancora nel De divina omnipotentia Pier Damiani scrive che la potenza divina potrebbe buttare all’aria i «sillogismi catafratti dei dialettici le loro versuzie», mettendo allo sbaraglio «le argomentazioni di tutti i filosofi» ritenute da loro necessarie ed inevitabili. «Se il legno arde, certo si consuma; ma esso arde; dunque si consuma». È un sillogismo, questo, apparentemente inviolabile ed eternamente stabile. Eppure, osserva Pier Damiani, Mosè vide ardere un rovo senza consumarsi (Esodo III, 3). La riflessione teologica di Pier Damiani mette in crisi dall’interno la pretesa – assurda e superba – di un logos umano che non intende considerare l’infinito divario tra l’ordo verborum, sul quale si attestano i dialettici, e l’ordine rerum, lo stato reale delle cose, che non necessariamente risponde a quelle strutture normative che i filosofi credono eternamente fisse e stabili. La volontà divina, da cui tutto dipende, supera e trascende infinitamente il piano delle cose del mondo, che è sì stabile e ordinato, ma fintanto che Dio vuole che sia così. Questa considerazione ci mette in guardia, dunque, dal subdolo peccato di superbia che spinge taluni teologi a scandagliare i più reconditi e profondi misteri divini – quasi che la volontà di Dio fosse alla portata del debole intelletto umano – per sancire uno stato del mondo che si pretende eterno ma che in verità dipende totalmente dalla infinitamente libera volontà divina. Tanto libera, sostiene Pier Damiani, da poter ridare la verginità ad una donna che l’ha perduta, poiché «colui che è potuto venir fuori dal seno materno senza offenderne la verginità, può anche, se vuole, rendere il suggello della verginità ad ogni donna caduta». La riflessione di Pier Damiani ci invita a questa sana prudenza e ci mostra i limiti di una ragione che, almeno in ambito teologico, non dovrebbe attribuirsi mai la pretesa di una conoscenza assoluta.
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