La lettura controcorrente di Sergio Romano
Ecco spiegata la "sua" fredda.
“E (l’Europa) continuerà a essere una mezza potenza, incapace di valorizzare le virtù e le risorse di cui dispone. Sarà l’Italia del Rinascimento, grande tesoro di talenti e splendori, ma troppo divisa per essere rispettata e temuta”.Sergio Romano non le manda quasi mai a dire, e non fa eccezione neanche con questo “In lode della guerra fredda. Una controstoria” (Longanesi, 126 pagine), fin dal titolo quasi provocatorio, se si pensa alle speranze nate dalla fine di quel lungo conflitto mai dichiarato tra l’allora Urss e gli Stati Uniti.Il fatto è che Romano conosce di prima mano le cose di cui parla, anche perché, oltre ad essere uno studioso di chiara fama (ha insegnato a Berkeley, Harvard e alla Bocconi di Milano), è stato ambasciatore proprio a Mosca, dunque in uno dei due poli dell’allora equilibrio mondiale.Si diceva della franchezza estrema con cui Romano tratta la politica di questi anni, una franchezza che tiene relativamente conto degli ideali e delle ideologie, a favore di una pragmatica visione del mondo che privilegia le reali forze in campo, anche a livello militare, le economie e i risultati concreti. È da questa prospettiva che il confronto tra il blocco “socialista” e quello “capitalista” viene rimpianto, perché visto come l’unico in grado di tenere a bada forze altrimenti distruttive e non solo per l’Occidente.L’equilibrio che si era creato, secondo Romano, era garanzia della tenuta sostanziale di una pace per certi versi armata, troppo armata: perché se il conflitto fosse scoppiato direttamente tra i due contendenti atomici, ora non ne staremmo a parlare da queste pagine.Era quindi per l’autore il livello più alto, ma anche più bilanciato, di guardia che si potesse realmente concepire, e la sua fine è stata una iattura. Romano ne ha per tutti: gli Stati Uniti - e gran parte degli europei - non hanno capito che il rovesciamento di Saddam Hussein e di Gheddafi, nonché l’indebolimento del re gime siriano, avrebbero scatenato forze centrifughe tali da rimettere in discussione uno status quo in cui esisteva una parvenza di legalità e soprattutto di autorità.Gorbaciov ha da parte sua - secondo l’autore - la “colpa” di aver fatto deflagrare l’impero sovietico e di aver causato l’effetto domino di rivendicazioni territoriali, di questioni etniche e religiose.Così è quando Romano affronta la questione ucraina, portando però la sua personale “realpolitik” a ignorare la questione Julija Timoshenko e la sua detenzione in carcere, giudicata illegale dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2013. Pure questo sarebbe un fatto, anche se investe i diritti civili e la dignità dei singoli.Come abbiamo visto all’inizio, la stessa questione europea è giudicata negativamente, e questo c’era da aspettarselo, vista la prospettiva di Romano e viste soprattutto le difficoltà che stanno allontanando sempre più l’opinione pubblica dal progetto di unità europea.Romano è uno di quelli, ormai tanti, che recriminano sulla priorità data ad una unificazione monetaria asimmetrica e destabilizzante, che prescinde da una politica seriamente unitaria, visto che, dice l’autore, “la politica estera europea è ancora quasi sempre un confuso coro di stonate iniziative individuali”. E qui si può essere d’accordo. È che il pragmatismo di Romano non tiene conto dell’importanza degli ideali. Che sono più “reali” di quanto lui sia portato a credere. Hanno contribuito a creare nuove realtà in situazioni difficilissime, come Solidarnosc in Polonia. Ed è solo un esempio.Certo, quel titolo “strillato” è ingeneroso con il contenuto del libro e pure con il lettore: perché non è una sperticata celebrazione di una guerra non dichiarata che è costata sangue, fatica, lacrime e sudore, per citare il Churchill del 1940, a popolazioni innocenti. Anche perché il libro tradisce le aspettative di chi sa quali rivelazioni a sostegno di una lode della gue rra fredda. Le argomentazioni hanno come base realtà conosciute da tempo e non c’è nulla di nuovo sotto il sole.Altro è sottolineare, giustamente, i limiti di una politica di demolizione di vecchi equilibri, perché quei limiti hanno portato non ad una semplificazione e ad una pacificazione dell’orizzonte planetario, ma ad una pericolosa frammentazione di focolai che rendono molto più difficile la loro composizione. Anche perché le cause vengono da molto, molto lontano.
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