Cinema
Una storia contemporanea
“Veloce come il vento”, diretto da Matteo Rovere e interpretato da Stefano Accorsi.
Il cinema italiano contemporaneo sta dando, ultimamente, segni di un’importante, nuova, tendenza. Si tratta di un filone di film che, con successo oltre che con maestria, percorrono le strade dei generi cinematografici, affidandosi a strutture e topos precisi, ma adattandoli poi di volta in volta al contesto italiano. Sembra cioè esserci una tendenza secondo cui, finalmente, si smette di inseguire il “mito” del film “artistico” e ci si avventura sulle strade conosciute, ma non per questo prive di qualità, dei generi cinematografici. Troppo spesso, infatti, il cinema italiano si è perso dietro l’idea del cinema d’autore, cercando di seguire le orme di una stagione inimitabile come quella dei Fellini, dei Rossellini, dei Visconti, solo per fare dei nomi. Con la convinzione che i film autoriali fossero soltanto quelli che non appartengono ad un genere preciso. Il cinema americano, invece, ci ha sempre insegnato che i capolavori possono essere realizzati anche dentro l’imbrigliatura di un filone cinematografico. Oggi sembra che i giovani cineasti italiani abbiano imparato la lezione e si stanno muovendo in questa direzione. “Suburra”, “Non essere cattivo”, “Lo chiamavano Jeeg Robot”: sono solo alcuni dei nomi delle pellicole che, a nostro avviso, si muovono all’interno delle trame, dei personaggi, delle mitologie di generi precisi, adattandole, però, alla nostra realtà italiana. E realizzano film che, con mestiere e professionalità, sono opere innovative e interessanti in un panorama italiano asfittico. Un’altra pellicola che si può far rientrare in questa nuova tendenza è senza dubbio “Veloce come il vento”, diretto da Matteo Rovere e interpretato da un ottimo Stefano Accorsi.
Giulia De Martino vive in una cascina nella campagna dell’Emilia Romagna con il fratellino Nico. Sua madre se ne è andata (più volte) di casa, e suo fratello maggiore Loris, una leggenda dell’automobilismo da rally, è diventato un tossico parcheggiato in una roulotte. Quando anche il padre di Giulia, che aveva scommesso su di lei come futura campionessa di Gran Turismo usando come collaterale la cascina, la lascia sola, Giulia si trova a gestire lo sfratto incipiente, il fratellino spaesato e il fratellone avido dell’eredità paterna. Ma la vera eredità dei De Martino è quella benzina che scorre loro nelle vene insieme al sangue e quel talento di famiglia, ostinato e rabbioso, per le quattro ruote.
La pellicola si muove all’interno del genere “sportivo”, enfatizzando al massimo le scene d’azione (tra l’altro realizzate dal “vero”, senza nessun effetto speciale, ma con il buon vecchio utilizzo degli stuntman), e i momenti adrenalinici in pista. Si sente un piacere nella narrazione, attenta a tutti gli snodi essenziali per una storia di sport (prima i successi, poi la caduta, infine la rivincita). Ma a questa struttura “astorica”, che appartiene al genere, il regista aggiunge una serie di elementi tutti italiani: la provincia bolognese, il dialetto, il riferimento a una vera leggenda del rally italiano (di cui il film è una sorta di autobiografia). Così facendo, la pellicola assume un suo spessore autonomo, che la rende un prodotto interessante e in grado di attrarre il pubblico. Inoltre la vicenda è quella di una famiglia disgregata che, nonostante le difficoltà, ritrova se stessa e si ricostruisce. E si delinea così una storia molto contemporanea: perché in una società sempre più “sfilacciata” ed atomizzata ci si rende sempre più conto della necessità di ritrovare un’unità almeno del nucleo familiare.
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