La relazione integrale di Mons. Vincenzo Orofino per il Convegno Pastorale Diocesano
Nel nuovo umanesimo, una nuova umanità
“Nel nuovo umanesimo, una nuova umanità”
Relazione tenuta al Convegno dell’Arcidiocesi di Cosenza - Bisignano
Cosenza, 25 settembre 2015
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- 1. Il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”
Il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”), che si celebrerà a Firenze dal 9 al 13 novembre 2015, si situa
- nel contesto del cammino della recezione dell’insegnamento del Concilio Vaticano II a cinquant’anni dalla chiusura (8 dicembre 1965), così come è stato tracciato dai convegni decennali celebrati dalla CEI a partire dagli anni 70 (Roma 1976 Evangelizzazione e promozione umana, Loreto 1985 Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, Palermo 1995 Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia e Verona 2006 Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo);
- a conclusione del primo quinquennio degli Orientamenti pastorali emanati dall’Episcopato italiano per il decennio 2010 – 2020: “Educare alla vita buona del Vangelo”, con l’obiettivo di verificare (discernimento comunitario) il cammino pastorale fin qui fatto (“Educazione cristiana e comunità ecclesiale”) e di programmare quello da fare nel secondo quinquennio degli Orientamenti (“Educazione cristiana e città”). Il Convegno di Firenze – e tutto quello che lo accompagna – non è compiuto in sé, fa parte della sfida educativa che sta interpellando le Comunità diocesane in questo decennio;
- nell’ottica del dialogo con la società e la cultura contemporanea.
- 2. Il contesto ecclesiale e antropologico: l’insegnamento di Papa Francesco
L’orizzonte ecclesiale e pastorale dentro cui è stato preparato il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale è tutto determinato dall’insegnamento di Papa Francesco e in particolare dall’Evangelii gaudium.
2.1 dal “tradimento” dei cristiani …
Papa Francesco più volte ha denunciato (è una vera e insistente denuncia!) la crisi spirituale, ecclesiale e pastorale che le nostre comunità vivono, in quanto la vita dei cristiani molto spesso è segnata – in modo «certo e permanente» – da «una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro. (…) Molti vi cadono e si trasformano in persone risentite, scontente, senza vita» (FRANCESCO, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium,2).
La crisi investe anche le strutture ecclesiali, che «in molte parti» sono caratterizzate dal «predominio dell’aspetto amministrativo su quello pastorale, come pure da una sacramentalizzazione senza altre forme di evangelizzazione» (EG,63).
In particolare Papa Francesco evidenzia “alcune tentazioni” che, specialmente oggi, colpiscono gli operatori pastorali” (EG,77):
Molti operatori pastorali, «sebbene preghino» - afferma Francesco – sono determinati da «un’accentuazionedell’individualismo», da una «crisi d’identità» e da un «calo del fervore«(EG,78); «la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione” (EG,78); “Molti operatori pastorali … non sono felici di quello che sono e di quello che fanno, non si sentono identificati con la missione evangelizzatrice (EG,79).
Le comunità cristiane – continua il Papa nella sua analisi – sovente si lasciano determinare da una certa stanchezza, da una specie di “accidia pastorale” che non deriva dall’eccesso di attività quanto dalle attività vissute male, “senza le motivazioni adeguate, senza una spiritualità che permei l’azione e la renda desiderabile” (n. 82). Il problema, quindi, non è il numero delle attività, ma le attività vissute a prescindere dall’incontro con Gesù Cristo!
«Così – insiste Papa Francesco, citando Benedetto XVI – prende forma la più grande minaccia, che “è il grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando e degenerando nella meschinità”(J. Ratzinger, situazione attuale della fede e della teologia, ai vescovi dell’America Latina, 1996)).Si sviluppa la psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo» (n. 83).
2.2. … al dramma dell’umanesimo ateo, laico e secolare
Dalla crisi pastorale/ecclesiale deriva direttamente una profonda e incidente “crisi antropologica”, tanto che “la questione antropologica” appare come la vera emergenza sociale dell’ora presente. «La modernità – si afferma nell’Invito a Firenze – ci consegna un mondo provato da un individualismo che produce solitudine e abbandono, nuove povertà e disuguaglianze, uno sfruttamento cieco del creato che mette a repentaglio i suoi equilibri» (CEI, COMITATO PREPARATORIO DEL 5° CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE, Firenze, 9-13 novembre 2015, Invito al Convegno, EDB, 2013, p. 12).
E’ sempre più evidente che ai nostri giorni si sta affermando un nuovo modello di uomo: un uomo non più unificato dal suo rapporto con Dio (il santo), ma autosufficiente e autoreferenziale, quasi dio di se stesso (il divo). Un uomo che nella vita concreta di ogni giorno spesso proclama la sua indipendenza esistenziale dal Creatore e vive “come se Dio non esistesse”. Non sempre e non necessariamente è contro Dio, semplicemente non gli interessa perché non c’entra con i suoi interessi vitali, con i suoi affetti, il suo lavoro, il suo tempo libero. Un uomo che, avendo “sfrattato” Dio dalla sua vita, ha perso se stesso e si è trovato ad essere sempre più meno uomo, sempre più smarrito, dubbioso, interiormente lacerato, triste, deluso, sdoppiato, disorientato e stanco, provato da sofferenze di ogni genere.
Il Padre gesuita Henri De Lubac, contestando l’umanesimo ateo di L. Feuerbach, A. Comte, F. Nietzsche, del suo tempo (1944) ha affermato: «Per la prima volta è venuta alla ribalta quella convinzione collettiva, travolgente come un maremoto, che finalmente è suonata l'ora dell'uomo, l'ora dell'essere finito che è autosufficiente nella sua immanenza e nella sua limitatezza e che, nella sua immanenza e nella sua limitatezza, prende su di sé tutte le prerogative di Dio» (H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, Jaka Book, Milano 1992, p.343).
2.3. L’urgenza di una radicale “conversione pastorale e missionaria”
La situazione ecclesiale e antropologica appena descritta dal Sommo Pontefice reclama una radicale “conversione pastorale e missionaria, (…) che non può lasciare le cose come stanno(EG,25). Una conversione che è reclamata non tanto da strategie pastorali quanto dal cuore stesso dell’uomo.
Papa Francesco ci chiede una “conversione globale”: personale e comunitaria, morale e sociale, spirituale e pastorale, di metodo e di priorità, sapendo che “ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione”(CONCILIO VATICANO II, Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, 6) e in un sostanziale ed essenziale ritorno alle origini.
Ci è chiesto di cambiare stile di vita personale, consapevolezza ecclesiale e metodo pastorale, sapendo che nella vita della Chiesa ogni rinnovamento accade dentro il fluire ininterrotto e ordinario della vivente tradizione ecclesiale, secondo il criterio della “riforma nella continuità” e non della “rottura nella discontinuità”, poiché la rigenerazione avviene sempre “nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, che il Signore ci ha donato” (Benedetto XVI discorso ai cardinali … per la presentazione degli auguri natalizi, 2005).
Da una parte, quindi, siamo chiamati a ritornare alle origini e a continuare a ispirare la nostra azione pastorale sugli insuperati “pilastri” della catechesi, della liturgia e della carità, modellando la vita delle nostre parrocchie su quella della prima comunità cristiana (Atti 2,42-47), quando i credenti in Cristo“erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli” (catechesi e formazione), “nello spezzare il pane e nelle preghiere” (liturgia e centralità della Messa domenicale), “stavano insieme” (Comunione e stile ecclesiale), “avevano ogni cosa in comune” (carità e presenza nel sociale) e “prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo” (stile di vita personale e sociale). Per questo il Signore “ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”. La vita della prima Comunità cristiana resta il modello permanente di ogni azione ecclesiale.
Dall’altra parte, dobbiamo ripensare la pastorale ordinaria (sia a livello di metodo che di gesti) in modo missionario, secondo il modello dell’iniziazione cristiana, che mira a introdurre e accompagnare le persone all’incontro con Gesù Cristo (l’IC è quel processo globale attraverso il quale si diventa cristiani), invitandole e aiutandole a partecipare alla vita “normale” della Comunità cristiana (a tutta la vita della Chiesa), evidenziando e sottolineando sempre e con chiarezza l’obiettivo spirituale delle attività (il motivo adeguato di ogni nostra azione pastorale è sempre la gloria di Dio e la crescita spirituale delle persone, mai l’azione in sé).
Il metodo dell’iniziazione cristiana comporta la valorizzazione del ruolo fondamentale della famiglia nella vita della Comunità e il superamento (anche nella terminologia!) della mentalità dei “corsi di preparazione” (… alla Prima Comunione, alla Cresima, al Matrimonio, etc ...).
2.4. In Gesù Cristo l’uomo nuovo: il battezzato
L’incontro con la persona di Gesù Cristo (che è lo scopo di ogni azione pastorale) è il cuore stesso della vita di ogni cristiano, in quanto imprime all’esistenza una direzione decisiva (cfr. Deus Caritas est, 1).
Il nostro primo incontro oggettivo con Gesù Cristo avviene nel sacramento del Battesimo, con il quale siamo immessi e immersi dentro la vita nuova che sgorga dalla risurrezione di Gesù. E’ ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Con il sacramento del Battesimo la persona è definita dal suo essere “di” Cristo, “in Cristo, “con” Cristo e “per” Cristo. Questa è la sua nuova fisionomia, la sua nuova identità, la sua nuova e grande dignità. Il battezzato è una “nuova creatura” (2Cor 5,17). La novità di vita che deriva dal Battesimo è irriducibile e non paragonabile a nessun mutamento umano, poiché si tratta di una nuova nascita che avviene per opera di Dio e non dell’uomo, per mezzo dell’acqua e dello Spirito (Gv 3,5). Per questo San Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici ha affermato che «non è esagerato dire che l’intera esistenza del fedele laico ha lo scopo di portarlo a conoscere la radicale novità cristiana che deriva dal Battesimo, sacramento della fede, perché possa viverne gli impegni secondo le vocazione ricevuta da Dio» (n.10).
Ecco perché il Concilio Vaticano II ha potuto affermare che soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova piena luce e totale comprensione il mistero dell’uomo, e che solo Gesù Cristo “svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 22)
Se l’uomo vuole ritrovare la sua identità, la sua grandezza e la sua originaria dignità deve ritornare a Gesù Cristo, poiché in lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9) ma anche tutta la grandezza dell’umanità.
In Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo, Dio e l’uomo si congiungono in una unità indissolubile e indivisibile. In Gesù Cristo ogni uomo trova “la chiave, il centro e il fine” della sua esistenza e della storia umana (GS,10).
A questo punto è evidente che il problema pastorale si coniuga strettamente con quello antropologico e quello più globalmente culturale, poiché al centro c’è sempre la persona nel suo modo specifico di essere e di esistere che non è sezionabile (da una parte la sua umanità e dall’altra la sua fede.
2.5. Dalla fede in Gesù Cristo il nuovo umanesimo.
Dall’uomo nuovo, una nuova umanità. L'uomo nuovo che nasce dall'esperienza cristiana è chiamato a continuare nel mondo l'opera del suo Creatore. I cristiani, perciò, hanno il compito di rivelare al mondo il volto luminoso di quest’uomo nuovo, soggetto del nuovo umanesimo e costruttori di una nuova umanità. Essi solo possono indicare agli altri fratelli la strada e le condizioni del successo e della ripresa dell’uomo, essi solo sono "i piloti incaricati di portare il mondo in porto", perché sono la "coscienza del genere amano” (H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, Jaka Book, Milano 1992, p.400).
Ai cristiani di questo tempo è affidato il compito di affermare e contribuire a far crescere un nuovo umanesimo. Un umanesimo che non può essere assoluto, ma aperto alla trascendenza e ai valori dello spirito, che realizzi contemporaneamente la fedeltà a Dio e la fedeltà all'uomo, che affermi entrambi, pur nella loro specifica essenza.
Non si tratta nemmeno di affermare un "umanesimo cristiano", come formula culturale applicabile sempre e comunque, ma di realizzare un umanesimo integrale e autentico, un "umanesimo convertito". Si tratta di dar vita a un nuovo umanesimo, "cultore dell'uomo", che esalti la dignità della persona umana come essere spirituale che viene da Dio e tende continuamente a Dio, in cui la scienza e la tecnica mettano le loro immense possibilità al servizio dell'uomo, sempre più responsabile verso i suoi fratelli e la storia. Un umanesimo "plenario", che promuova tutto l'uomo e tutti gli uomini, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso e di promuovere "il vero sviluppo, che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane” (PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum progressio, 20).
Un umanesimo "trascendente", che lungi dal fare dell'uomo la norma ultima dei valori lo realizza pienamente inserendolo in Cristo vivificatore. Un umanesimo "pieno", che aiuti l'uomo a riconoscere Dio come origine e termine dei valori, promuova la piena dignità di tutti, garantisca il diritto inviolabile della vita, favorisca la cooperazione al bene comune, costruisca una mentalità di pace, umanizzi la società, si impegni per la salvaguardia del creato. Un umanesimo “integrale” che si presenti come umanesimo non più individualista, ma sintetizzatore, non più a dimensione solo antropocentrica ma teocentrica, non più borghese, ma ispirato alla solidarietà e alla comunione. Un autentico umanesimo "evangelico" capace di coniugare la fedeltà a Dio, che accade nella conversione e nell'adesione personale, con la fedeltà all'uomo, che richiede l'attenzione alla sua vocazione e alla sua situazione concreta.
Occorre che il nuovo umanesimo che siamo chiamati a edificare assecondi la ricerca della verità e della libertà, consapevole che l'uomo non si realizza se non nell'adesione alla verità oggettiva e che la libertà disgiunta dalla verità diviene puro arbitrio irrazionale e distruttivo della persona e della comunità.
- 3. Cinque vie per realizzare la “conversione pastorale” verso la nuova umanità, ovvero cinque corsie di un’unica autostrada: l’evangelizzazione.
Nella “Traccia” di riflessione predisposta per aiutare le Comunità diocesane a vivere in tutta la sua intensità l’evento di Firenze 2015, il Comitato Preparatorio Nazionale, dando sostanziale seguito/concretizzazione all’insegnamento dell’Evangelii gaudium, ha individuato cinque verbi per indicare altrettante operazioni che la Chiesa deve compiere per realizzare quella “conversione pastorale e missionaria” reclamata con forza da Papa Francesco. Si tratta di cinque vie che è necessario percorrere per edificare il nuovo umanesimo e testimoniare la “nuova umanità”; cinque operazioni che devono segnare, qualificare e descrivere la vita e la missione della Chiesa oggi: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare.
a) Uscire
Ogni Comunità diocesana, quindi, è chiamata a configurarsi come Chiesa in “uscita missionaria”, evitando l’attivismo invadente e il vagare indefinito.
Perché questo accade occorre:
- “Uscire da”: ogni cristiano deve uscire da se stesso e ogni comunità cristiana deve uscire dalle sue strutture, prendendo l’iniziativa, senza aspettare che siano gli altri a bussare alle nostre porte;
- “Uscire per”: per andare nelle piazze e lì dove le persone vivono, per incontrarle, ascoltarle e stabilire con loro relazioni costruttive e incidenti; uscire per osservare la realtà da vicino, per condividere le problematiche e stabilire rapporti di reciprocità (un dono offerto e ricevuto) e di prossimità con tutti, fino alle estreme “periferie” geografiche ed esistenziali;
- “Uscire come”: occorre uscire come Chiesa, come Corpo di Cristo e non come una qualsiasi associazione di volontariato (La Chiesa non è una ONG, ci insegna Papa Francesco); uscire forti della propria identità e con la consapevolezza che intanto possiamo uscire in quanto abbiamo la sicurezza di una casa dove siamo custoditi e dove possiamo rifocillarci. Per uscire occorre essere felici di stare nella Chiesa.
“Uscire” vuol dire andare dappertutto, ma anche rinnovare il metodo pastorale per svolgere la nostra consueta azione pastorale “in modo missionario”, sintonizzandola con lo “spirito” e la “lettera” dell’Evangelii gaudium: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, - ci confida Papa Francesco – perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. (…)Fare in modo che le strutture diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (n. 27).
b) Annunciare
Dobbiamo uscire per annunciare Gesù Cristo e comunicare il Vangelo a tutti, non per vagabondare in modo indistinto e impersonale,
“La nostra attuale situazione pastorale somiglia talvolta all’opera di un agricoltore innamorato della propria terra: egli zappa, concima, innaffia, spesso con grande dispendio di energie ... ma nessuno si è preoccupato di seminare in quel campo e gli sforzi risultano sterili! Se la catechesi corrisponde alla coltivazione, il primo annuncio corrisponde alla semina, ed è tale semina a mancare in gran parte della nostra pastorale ordinaria” (UFFICIO CATECHISTICO REGIONALE LAZIO, Linee per un progetto di primo annuncio, Elledici, Leumann (TO) 2002, 3).
“La fede non deve essere presupposta ma proposta”, diceva Von Balthasar, e Papa Benedetto XVI ha confermato che «La fede non si conserva di per se stessa nel mondo, non si trasmette automaticamente nel cuore dell’uomo, ma deve essere sempre annunciata. E l’annuncio della fede, a sua volta, per essere efficace deve partire da un cuore che crede, che spera, che ama, un cuore che adora Cristo e crede nella forza dello Spirito Santo! Così avvenne fin da principio!” (Discorso ai partecipanti al Convegno della diocesi di Roma, Avvenire, 14 giugno 2011, p.19). “Non la comunicazione di complesse dottrine, ma l’annuncio gioioso di Gesù Cristo”, ha detto Papa Francesco ai vescovi degli Stati Uniti d’America, l'altro ieri, 23 settembre.
Riannunciare la persona e il messaggio liberante di Gesù Cristo deve essere anche per noi, oggi, il compito più urgente e indifferibile perché questo “è il primo e fondamentale atto di carità verso l’uomo” (CEI, Orientamenti pastorali per gli anni ’90 Evangelizzazione e testimonianza della carità, 1) e rappresenta l’anima di ogni azione pastorale, poiché la Chiesa “esiste per evangelizzare”, e l’evangelizzazione «è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda». (PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangeli nuntiandi, 14).
Tutte le azioni pastorali vanno innervate di “primo annuncio”, perché “non si può più dare per scontato che si sappia chi è Gesù Cristo, che si conosca il Vangelo, che si abbia una qualche esperienza di Chiesa” (CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 6).
I cristiani sono chiamati ad annunciare per “dirsi” al mondo e nel mondo.
c) Abitare
Perché si possa realizzare concretamente quella conversione pastorale e missionaria che Papa Francesco chiede con insistenza, la Comunità cristiana deve “abitare” il territorio in cui vive con una “presenza” fraterna e solidale, capillare e significativa, colma di affetto ma anche competente, aperta al bisogno di tutti ma non qualunquista. Una presenza culturalmente rilevante e incidente, stabile e strutturata, che eviti episodicità e approssimazione e determini uno stile di vita fatto di prossimità e reciprocità, fondamento della nuova umanità. La Chiesa è chiamata a essere presente nel territorio con la sua specifica e chiara identità, ma nello stesso tempo con la sua capacità di dialogo con tutti in funzione del bene comune. Un dialogo schietto, rispettoso e reale, che deve aiutare tutti ad assumere un atteggiamento positivo di fronte alla realtà, per pensare, progettare e proporre insieme le linee concrete di uno sviluppo possibile e duraturo. Un dialogo che deve favorire l'unità ideale e la collaborazione attiva, poiché solo insieme è possibile crescere e favorire il bene di tutti e di ciascuno.
La Chiesa che abita il territorio è una Chiesa che si coinvolge e accompagna, che fruttifica e festeggia, come ci insegna Papa Francesco nell’Evangelii gaudium: «La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone a prendersi cura e ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania (EG,24).
d) Educare
Sappiamo che ogni conversione pastorale dipende innanzitutto dal cambiamento della nostra vita personale, poiché“non può esserci vera riforma della Chiesa se prima non c’è la nostra personale riforma e la conversione del nostro cuore” (Benedetto XVI, catechesi all’udienza generale di mercoledì 23 febbraio 2011). La nostra santificazione (1Ts 4,3), quindi, è la condizione indispensabile di ogni riforma ecclesiale e di ogni conversione pastorale. Da sempre la Chiesa si è preoccupata di accompagnare i suoi figli nel cammino della vita per condurli alla piena maturità di fede, che coincide con la realizzazione della propria vocazione ultima, che è unica ed è divina (cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, 22). Da sempre, questo è il nucleo dell’opera educativa della Chiesa. Scopo essenziale di ogni atto educativo è la formazione integrale della persona per renderla capace di vivere in pienezza la sua vocazione e di dare il proprio contributo al bene della comunità (Cfr. CONCILIO VATICANO II, Dichiarazione Gravissimum educationis sull'educazione cristiana, 1). E' un compito permanente che riguarda tutta l'azione ecclesiale e non solo un suo settore. La missione educativa della Chiesa è una dimensione che attraversa tutte le sue attività, perché riguarda tutti gli aspetti della vita dell'uomo. Un compito difficile, ma necessario, urgente e inderogabile. Un compito richiesto dalla dilagante scristianizzazione della società, dal perdurante infantilismo spirituale, dal crescente analfabetismo religioso.
L'emergenza educativa riguarda innanzitutto noi adulti, chiamati a formarci continuamente per "maturare una fede adulta e pensata, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo" (CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali dell'Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, 50).
Solo adulti così possono diventare educatori capaci e convinti delle giovani generazioni, introducendole nella realtà totale colta nel suo significato pieno e accompagnandole nel cammino della vita. Un accompagnamento autentico e reale, discreto ma puntuale, affettuoso ma esigente, rispettoso della libertà dei giovani ma deciso e convincente, che deve avvenire quotidianamente nelle circostanze concrete e normali della vita. Senza invadere la vita dei giovani e senza sostituirsi alla loro personale responsabilità. Un accompagnamento, dunque, e non una sostituzione possessiva. Un accompagnamento che aiuti a stabilire relazioni positive e coinvolga creativamente i giovani nell’impresa della loro umanità, rendendoli capaci di giudicare autonomamente i fatti e di governare le relazioni con le persone e con le cose. Un accompagnamento che si tramuti in comunione di vita e in condivisione di ideali, tra adulti: ugualmente maturi, consapevoli e pronti ad assumersi la responsabilità della propria formazione permanente e delle scelte che determinano la vita.
Il processo educativo, come la trasmissione della fede, si realizza attraverso efficaci “alleanze educative”, in una ininterrotta successione di incontri: unici, significativi, decisivi, sconvolgenti. Scopo essenziale di ogni atto educativo è la formazione integrale della persona per renderla capace di vivere in pienezza la sua vocazione e di dare il proprio contributo al bene della comunità (Cfr. CONCILIO VATICANO II, Dichiarazione Gravissimum educationis sull'educazione cristiana, 1).
e) Trasfigurare
“Trasfigurare”, in un certo qual modo, rappresenta la sintesi di tutto il percorso fin qui descritto, perché indica uno sguardo di fede su tutta la realtà dell’umano, del mondo e della storia. Quello stesso sguardo di fede che duemila anni fa, sul Monte, ha permesso a Pietro, Giacomo e Giovanni di contemplare il mistero di Gesù Cristo nella sua più intima verità e in tutta la sua bellezza, alla luce della Legge e dei Profeti (NB: …. Sul monte non è cambiato Gesù, è cambiata la qualità dello sguardo dei discepoli ….).
“Trasfigurare”, perciò, è attitudine al mistero di Cristo, capacità interiore di stare con Cristo, di contemplare il suo volto radioso e di guardare la realtà come la guarda Cristo, che il credente attinge e impara dall’esperienza liturgica e da questa riverbera nel suo vissuto quotidiano. Ecco perché la Chiesa insegna che la liturgia è fonte e culmine di tutta l’azione della Chiesa (cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II: Costituzione conciliare SacrosanctumConcilium sulla sacra liturgia, 10). È la liturgia che permette alla carità di non scadere in un generico umanitarismo e alla Chiesa di non diventare una qualsiasi ONG, come insegna Papa Francesco. La liturgia è la cifra della trasfigurazione dell’umano, perché è il luogo sacramentale dell’incontro e della comunione tra Dio e l’uomo. Questo significa che la realizzazione del nuovo umanesimo non può prescindere dalla natura profondamente umana e al tempo stesso autenticamente divina della liturgia. Tutta l’azione sacramentale è un cammino di umanizzazione vissuta nella fede (I sacramenti corrispondono agli snodi centrali della vita umana e delle sue dimensioni fondamentali). In questo senso l’Eucaristia è il più alto magistero di umanesimo evangelico. Ecco il motivo della centralità della celebrazione eucaristicae della domenica, “sintesi della vita cristiana e condizione per viverla bene” (SC,10). Ecco perché “la vita della parrocchia ha il suo centro nel giorno del Signore e l’Eucaristia è il cuore della domenica. Dobbiamo custodire la domenica, e la domenica custodirà noi e le nostre parrocchie, orientandone il cammino, nutrendone la vita” (CEI, Nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 8). La domenica è il giorno dell’uomo, perché è il giorno della gioia, della fraternità, della speranza, del riposo, della solidarietà, della carità, della condivisione. La domenica, perciò, è un giorno importante e irrinunciabile non solo dal punto di vista religioso ma anche antropologico, culturale e sociale. La celebrazione eucaristica domenicale deve tornare a essere il punto di riferimento per tutti e il centro di unità dei nostri paesi, facendo festa e coltivando i rapporti umani che sono alla base di ogni sviluppo umano e culturale. La domenica sarà sempre di più un giorno di festa, e sempre meno un tempo libero e di consumo, se la celebrazione eucaristica verrà proposta in tutta la sua importanza e sarà vissuta secondo tutta la sua ricchezza spirituale ed ecclesiale.
- 4. Alcune considerazioni in ordine allo stile ecclesiale e al metodo pastorale
Da quanto abbiamo fin qui detto, alla scuola dell’Evangelii gaudium e della “Traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale” di Firenze, emergono alcune caratteristiche che l’azione ecclesiale deve avere per essere in funzione di una reale “conversione pastorale e missionaria” e far crescere una nuova umanità.
- Le persone, cuore della pastorale.
Papa Francesco non si stanca di ripetere che al centro di ogni azione pastorale ci devono essere le persone e la loro vita. Ai sacerdoti chiede di avere “l’odore delle pecore” e di camminare con il popolo, «a volte davanti, a volte in mezzo e a volte dietro: davanti, per guidare la comunità; in mezzo, per incoraggiarla e sostenerla; dietro, per tenerla unita perché nessuno rimanga troppo, troppo indietro»(Assisi, Incontro con il clero, persone di vita consacrata e membri di consigli pastorali, 4 ottobre 2013).
Occorre, perciò, amare le persone e la loro vita nelle concrete situazioni esistenziali, nel contesto vitale e nel territorio che abitano. Già a conclusione del 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, celebrato a Verona nel 2006, la Chiesa ha ribadito che mettere le persone al centro costituisce «una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità» (CEI, «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, 22). Il recupero della centralità delle persone nell’azione ecclesiale permette di ricondurre a unità le molteplici attività pastorali, evitando la dispersione e le sovrapposizioni.
Il metodo pastorale che deriva da questa scelta è quello dell'accoglienza cordiale e colma di affetto di tutte le persone, dell'accompagnamento premuroso e costante, della vicinanza quotidiana, dell'ascolto rassicurante, della condivisione fraterna, del coinvolgimento costruttivo e della carità operosa.
- Il discernimento comunitario come metodo ecclesiale, la missione come stile pastorale
La conversione pastorale deriva dalla conversione delle persone ma si realizza sempre nella Comunità e per l’opera della Comunità ed è finalizzata sempre all’evangelizzazione. La nostra azione pastorale, quindi, deve avere lo stile dell’annuncio lieto e coinvolgente, e nello stesso tempo deve essere svolta secondo il metodo della “sinodalità” che concretizza la comunione ecclesiale e promuove il fattivo coinvolgimento di tutti i credenti in Cristo, attraverso la corresponsabilità dei fedeli laici e la valorizzazione degli organismi di partecipazione.
La comunione sinodale chiede ai cristiani di “convenire insieme” per fare quel “discernimento comunitario” tanto necessario e tanto raccomandato da Papa Francesco per non cadere nell’attivismo arido e invadente. Un discernimento non tanto sociologico, quanto soprattutto evangelico, per conoscere prima di tutto la volontà di Dio e poi la situazione in cui viviamo. «”Discernimento comunitario” è un termine ricco di significato per la Chiesa italiana. Indica la volontà di costruirsi come corpo non clericale e ancor meno sacrale, dove ogni battezzato, le famiglie, le diverse aggregazioni ecclesiali sono soggetto responsabile; dove tutti insieme cerchiamo di essere docili all’azione dello Spirito. Significa vedere che lo Spirito Santo risveglia in chi si lascia raggiungere dalla sua grazia l’immagine di Gesù e che, soprattutto, disegna una Chiesa che si lascia seminare nel campo del mondo, accanto ai più piccoli come loro voce e speranza, nell’attesa vigile e fiduciosa dello Sposo” (IN GESU’ CRISTO IL NUOVO UMANESIMO, Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale, EDB, Bologna 2014, p.43.
- La connotazione intrinsecamente culturale della pastorale ordinaria della Chiesa
Tutta l’attività pastorale della Chiesa ha una connotazione intrinsecamente culturale perché, in un certo qual modo, la cultura tende a forgiare il modo di essere e di esistere della persona e permette di accogliere e di vivere pienamente e consapevolmente la fede. Quando la fede è interamente pensata allora si manifesta come mentalità diffusa e diventa criterio di giudizio dei fatti e delle circostanze della vita: “Una fede che non diventa cultura – ci ha insegnato San Giovanni Paolo II – è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta” (SAN GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Docenti Universitari, Bologna, 16 gennaio 1982, in “La Traccia”, a III, p. 55/I).
La cultura, quindi, è una vera priorità pastorale della vita ordinaria delle parrocchie perché permette di individuare i modi più adatti e più efficaci per comunicare il Vangelo agli uomini del nostro tempo e garantisce slancio e freschezza alla catechesi, alla liturgia e alla testimonianza della carità.
Conclusione
Il risultato di questo cammino pastorale e antropologico sono i santi. Il “nuovo umanesimo” che la Chiesa vuole affermare ha le sue radici innanzitutto nei nostri cuori e nel nostro incontro con Gesù Cristo, poiché in Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo, Dio e l’uomo si congiungono in una unità indissolubile e indivisibile.
Non si tratta, quindi, di disegnare in astratto i termini e le caratteristiche di un “nuovo umanesimo”, quanto piuttosto di mostrare la bellezza e la fecondità di una “nuova umanità”, quella che sgorga dall’esperienza vissuta della fede cristiana e si manifesta negli spazi di “vita buona” che i credenti in Cristo edificano nella società e per la società.
I soggetti di questa “nuova umanità” sono persone interiormente unificate dall'incontro con Gesù Cristo, riconosciuto e accolto come Signore della propria vita, nell'esperienza storica della Chiesa. Persone che "attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo". Persone "che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità". Persone "il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all'intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri". Perché "soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini" (J. RATZINGER, L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli Siena 2005, pp. 63-64).
Persone così testimoniano al mondo che “con Gesù sempre nasce e rinasce la gioia” (Evangelii gaudium, 1) e sono i protagonisti di una Comunità cristiana che riannuncia con gioia e senza sostala persona e il messaggio liberante di Gesù Cristo, che abita il territorio con una presenza fraterna e solidale con tutti, che continua a educare piccoli e grandi perché vivano nel mondo secondo la misura di Cristo, che con la sua azione liturgica (in particolare la Santa Messa domenicale) e la sua testimonianza offre a tutti spazi di vita bella, buona e trasfigurata.
La vita della Chiesa, in quanto pezzo di mondo redento e continuità di Cristo nel tempo e nello spazio, è la “nuova umanità”: i santi e tutti coloro che tendono alla perfezione evangelica ne sono i protagonisti felici; lasciamoci anche noi rinnovare dal flusso di grazia sacramentale che tutto converte, tutto redime, tutto trasfigura. Saremo i costruttori entusiasti e gioiosi di un “mondo nuovo” nel paese dove abitiamo e nella condizione di vita in cui ci troviamo.
La Madre della Misericordia ci accompagni con la dolcezza del suo sguardo e ci aiuti a riscoprire la gioia della tenerezza di Dio. “Tutto nella sua vita è stato plasmato dalla presenza della misericordia fatta carne (…) non si stanchi mai di rivolgere a noi i suoi occhi misericordiosi e ci renda degni di contemplare il volto della misericordia, suo Figlio Gesù (MV, 24).
Il Signore ci doni un cuore puro e libero per accogliere, donare e testimoniare il suo amore.
+ Vincenzo Orofino
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