Nelle “viscere” dell’uomo l’incontro con la tenerezza che proviene da Dio
A Rende inaugurato l'anno accademico dell'ISSR con la lectio magistralis di Ermenegildo Manicardi
Possiamo immaginare di udire tra le parole pronunziate da Cristo ai suoi discepoli, con i quali viveva in intima relazione, “vi amo con tutto il mio cuore e con tutto il mio ventre”, e viscere e ventre, dall’esegesi del Vangelo di Marco, possono essere definite come sede della tenerezza di Dio e che viene da Dio. E il “provare tenerezza” può essere annoverato, alla luce di quanto ascoltato, tra i verbi pienamente cristologici.
Un inizio d’anno accademico ispirato, quello a cui hanno partecipato, lo scorso venerdì, gli studenti del corso di Laurea in Scienze Religiose del "San Francesco di Sales”, diretto da suor Raffaella Roberti, affiancata per l’occasione, da suor Rosetta Napolitano, direttrice del "Redemptoris Custos" e dal professore Luca Parisoli, in qualità di moderatore. A fare gli onori di casa, l’arcivescovo Francescoantonio Nolè.
La lectio magistralis “Quando il ramo si fa tenero. La tenerezza nel Vangelo di Marco” è stata data all’uditorio da Ermenegildo Manicardi, professore alla Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana, che ha ammesso di avere affrontato il tema quasi come una scommessa. «La tenerezza, in generale, è la capacità del non essere duri e rigidi di fronte alla persona e alla realtà in cui essa è coinvolta. La tenerezza è il lasciarsi toccare e cambiare, senza deformare la propria figura. Forse, la tenerezza può essere definita pure come ‘un accogliere con morbidezza’ l’altro, che venendoci incontro, suscita in noi emozioni coinvolgenti, non permettendoci di essere sfondati dell’altro che avanza, ma aprendo in noi uno spazio d’accoglienza che può salvare l’altro e anche noi. Essa può divenire un’emozione precisa e puntuale, seppure improvvisa; e da emozione, improvvisa e puntuale può mutare, poi, in un sentimento duraturo e diffuso. E se essa si fonda sul Vangelo si potrebbe parlare, forse, di virtù evangelica. In Marco ricorre spesso il verbo greco “splanchìzomai”, reso in “commuoversi”, anche se la traduzione più corretta sarebbe “intenerirsi”, che si oppone al tema tipico dell’evangelista, ossia “la durezza del cuore”. Il problema dei discepoli era, dunque, che non erano teneri (che non significa sentimentali!)».
In Marco la parola “tenero” è associato al “ramo secco del fico”, che diviene tenero all’avvicinarsi dell’estate. La tenerezza, dunque, si oppone alla durezza dei cuori. «L’unica parte in cui il termine “tenero” non viene ripetuto è nell’Ultima Cena, in cui Gesù manifesta la tenerezza con un’intensa gestualità: Gesù è tenero ma nella forza e pure per questo ha voluto l’Eucarestia: affinché potesse rimanere presente nel sacrificio supremo. In greco, poi, “splànchna” è la “pancia tenera” , “le viscere” da cui nasce un figlio. L’intenerirsi ha sede nella pancia. La durezza dei Dodici, allora, non permetteva loro di avere cuore e viscere adeguatamente tenere. E questo problema non li faceva “funzionare”»: infatti, per accogliere Cristo nella propria vita è necessario lasciarsi vincere dalla tenerezza, che viene da Dio.
Foto in pagina e di copertina: Daniele Pangaro
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