Il Buon Pastore, un Annuncio sempre nuovo
La quarta domenica di pasqua ci offre nel Vangelo un testo che si riferisce al discorso di Gesù sul “Buon Pastore” e per questa strutturazione liturgica è passata ad essere la “domenica del Buon Pastore” e l’occasione – da ben 61 anni – per pregare per le vocazioni.
Per noi oggi è l’occasione per fare eucaristia per il dono di due vocazioni sacerdotali a servizio del popolo di Dio, quella di Mario e di Jairo e per lasciarci raggiungere, proprio in questo giorno così speciale, dal dono della Parola del vangelo di Giovanni che ci offre il bene di un annuncio sempre nuovo per la nostra vita.
Il tema delle parole di Gesù è legato alla storia di Israele di duemila anni fa, alla lettura dei segni che potevano diventare così evocativi da assumere un ruolo speciale nella simbologia che accompagnava il ritmo della quotidianità della gente del medio oriente e non solo. L’esperienza di accompagnare un gregge è totalizzante: per i pastori – allora come oggi – non esistono festività, non esistono giornate che non siano caratterizzate dallo stretto legame di spazio e di tempo fra pastore e gregge, piccolo o grande che sia. È vero che fare il pastore potrebbe sembrare una occupazione come altre, ma in fondo in fondo non lo è. C’è una esperienza pregiudiziale di comunione di vita che va oltre gli orari di lavoro previsti e sanzionati dalle tabelle sindacali, oltre il diritto alle ferie, oltre al diritto di poter gestire la propria vita in totale libertà e spensieratezza. C’è un legame. Penso che questa dimensione sia presente anche nella esperienza di Gesù anche se espressa con parole differenti. E la parola legame rimanda alla parola relazione con la quale ognuno di noi deve fare i conti se vuole vivere in maniera buona, bella e felice. Il nostro tempo ha accarezzato e accarezza ancora il pensiero che si può essere felici solo quando si è liberi di fare quello che ci piace, senza dover rendere conto a nessuno, che la vita da single sia una fortuna rispetto a chi ha scelto di legarsi in qualche maniera ad un partner. Qualcuno che si è interessato, in un recente passato, a questo tema ha potuto verificare che questo pensiero pervasivo della nostra cultura non produce i frutti sperati ed ha affermato in un suo libro: “Viviamo in un’epoca dominata da quelle che Spinoza chiamava le ‟passioni tristi”: un senso pervasivo di impotenza e incertezza che ci porta a rinchiuderci in noi stessi, a vivere il mondo come una minaccia, alla quale bisogna rispondere ‟armando” i nostri figli. I problemi dei più giovani sono il segno visibile della crisi della cultura moderna occidentale fondata sulla promessa del futuro come redenzione laica. (…) Per uscire da questo vicolo cieco occorre riscoprire la gioia del fare disinteressato, dell’utilità dell’inutile, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati.” (Miguel Benasayag-Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi) Il buon Pastore ci insegna a vivere bene scegliendo e accettando di legarsi per amore ad una persona, ad una comunità, ad un progetto di vita.
Il buon Pastore è capace di dare la vita per amore. Per amore, non per interesse, non per convenienza. Un amore che si incarna nel qui ed ora della storia e che dilata il cuore fino a rendere tutta la propria vita dono per gli altri. Un dono, quello della propria vita, che è richiesto dalla contingenza in cui mi trovo e in cui sento di dover costruire il Regno proprio così e non diversamente. È una vita donata, non rapita come ci ricorda ancora una volta Gesù: “Nessuno me la toglie: io la do da me stesso”. Donare la vita è roba da innamorati, che sa di paradosso, di esagerazione… eppure anche le nostre storie sono mescolate di amore sovrabbondante di cui siamo stati beneficiari, di perdoni immeritati, di testimonianze che hanno lo spessore del martirio anche se non hanno avuto l’effusione del sangue. Abbiamo sempre bisogno di tornare a quest’amore per ricevere forza e la capacità temeraria di buttarci anche noi dentro a questa logica che il maestro di Galilea ci ha insegnato con le sue parole e con la sua vita. L’amore per cui Gesù dona la sua vita è la forza della esistenza cristiana che si sostanzia di un di più che abbiamo ricevuto e che contravviene radicalmente alle misurazioni mercenarie di cui siamo tante volte vittime anche noi. Sono le misurazioni di un amore asfittico, di chi calcola -da bravo mercenario- cosa gli conviene di più e cosa di meno. Sono i bilancini di precisione che usiamo tutte le volte che trasformiamo la grazia di Dio in merce preziosa che sta solo nelle nostre mani e di cui ci sentiamo addirittura proprietari: che mercenari siamo quando non ci apriamo alla bellezza dello Spirito che opera meraviglie nella vita delle persone, e ragioniamo come i farisei legandoci alle nostre tradizioni e dimenticando il mistero della Misericordia e del perdono! Che mercenari siamo quando vorremmo mettere tutto il bene che il Signore compie sotto il nostro controllo, illuminati dal pallido chiarore delle nostre menti anguste che non riescono a cogliere la libertà di Dio che fa sorgere “il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Certamente chi sta dalla parte del mercenario non capisce la logica del dare la vita, del donare non cose ma se stessi. Scriveva Dag Hammarskjöld (Segretario generale delle nazioni Unite +1961): “Essere grato e preparato. Hai avuto tutto per nulla. Non esitare quando ti si chieda di dare quello che in sostanza resta un nulla, per tutto”.
Abbiamo guardato al Buon Pastore come modello ed esempio della nostra vita cristiana, e per Mario e Jairo come modello della loro vita presbiterale. Non dobbiamo mai dimenticarci però, che anche da pastori noi siamo sempre pecorelle del suo gregge e che abbiamo bisogno di sentire che quanto noi ci sforziamo di fare per gli altri è donato gratuitamente a noi in ogni momento della nostra vita dal Buon Pastore. Il rischio che possiamo correre è quello di identificare il nostro sacerdozio come una professione che possiamo esercitare acquisendo sempre più competenze e sicurezze di tipo pastorale, sociale, teologico. Abbiamo bisogno sempre di formarci e di aggiornarci, beninteso, ma non dobbiamo mai dimenticare la sorgente e la fonte della nostra chiamata che si trova in Gesù e non nelle nostre capacità e risorse. Le domande che Gesù pone a Pietro sul lago di Tiberiade dopo la risurrezione sono dirette a sapere non tanto se Pietro ama il gregge che gli è affidato, ma se ama colui che lo ha chiamato e gli ha detto “vieni e seguimi”. La sequela del Signore è questione di cuore e non di mente, è una relazione d’amore che va vissuta ogni giorno, con tutte le variabili di ogni relazione, unica esperienza che ci permette di non scambiare Dio con le cose che lo riguardano. Scriveva Agostino: “Immaginate che uno sposo fabbricasse l’anello destinato alla sposa e questa amasse di più l’anello che non il suo sposo che lo costruì; forse che attraverso quel dono non risulterebbe che la sposa ha un cuore adultero anche se essa ama ciò che è del suo sposo? Certo essa ama ciò che ha fatto il suo sposo, ma se dicesse: a me basta il suo anello e non mi interessa affatto di vedere lui, che sposa sarebbe mai costei? Chi non detesterebbe la sua insulsaggine? Chi non porrebbe sotto accusa quest’animo da adultera?” (Trattati sulla prima lettera di Giovanni 2,10) Davanti alle gioie e alle fatiche della vita cristiana e presbiterale proviamo sempre a sentire la voce del pastore grande delle pecore che ci chiama per nome, che continua a dare la vita per noi, che condivide con noi l’ansia per le “altre pecore che non provengono da questo recinto”.
Che Gesù, Pastore grande delle pecore, continui a chiamarci ogni giorno alla sequela del suo progetto d’amore, e renda forte il cuore e la fede di Mario e Jairo da oggi chiamati a “implorare la sua misericordia per il popolo loro affidato e per il mondo intero”.
+ Giovanni Checchinato
* Vescovo dell'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano
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