Guardare a Lesbo con la coscienza inquieta
Ogni giorno arrivano sull’isola in media quasi mille migranti. In compenso in una settimana si è riusciti a trasferire in Turchia circa duecento espulsi. In pratica è come cercare di svuotare un lago alimentato da un fiume con un rigagnolo. Nel frattempo coloro che sono arrivati dopo il 18 marzo sono di fatto dei detenuti che scontano la lentezza della procedura con quella che di fatto è una prigione dietro inferriate e reticolati.
Lesbo, l’isola in cui arriva il Papa, è stata finora forse la porta più importante da cui i profughi entravano in Europa. Ed è stata anche il varco meno insicuro visto che per arrivarci bastava attraversare i dieci, quindici chilometri del tratto di mare che separa questa isola greca dalla costa della Turchia che si lascia alle spalle. Si dice che negli anni scorsi la metà degli ottocentomila profughi che sono giunti in Grecia abbiano fatto tappa a Lesbo.
Ma ora, dopo l’accordo per il rimpatrio a pagamento dei profughi europei in Turchia, diventata per interesse un ricovero per popoli quando già ha accolto più di due milioni di siriani, perfino fra i disperati di Lesbo si è creata una apartheid fra i meno e i più sfortunati. Quelli arrivati prima del 18 marzo rimangono liberi. Quelli arrivati successivamente sono raccolti nel grande campo di Moria in attesa di decidere se hanno diritto a restare in quanto rifugiati politici oppure se devono essere respinti in Turchia come emigrati irregolari.
In realtà
questa storia dell’espulsione dei cosiddetti immigrati irregolari, anche se è un ritornello costante di chi si oppone in tutto o in parte all’emigrazione, è una operazione più facile a dirsi che a farsi.
Per decidere chi può godere del diritto d’asilo e chi no bisogna trovare le tante persone che conoscono le mille lingue della Babele di chi arriva, interrogare i migranti uno o per uno, identificarli – ammesso che vogliano essere identificati – dichiarando il loro vero nome e cognome e offrendo le loro impronte digitali, sapere da quale Paese provengano – ammesso che anche in questo caso gli emigranti vogliano dare la versione più vera o quella più comoda –, fare eventualmente verifiche burocratiche e diplomatiche, mettere il tutto, compresa la decisione finale, per iscritto, fare scortare gli espulsi ai luoghi più o meno distanti di destinazione.
Così anche a Lesbo, dove pure il lavoro era stato studiato e organizzato con i suggerimenti dell’Europa, i tempi del vaglio e della selezione dei migranti non tornano.
Ogni giorno arrivano sull’isola in media quasi mille migranti. In compenso in una settimana si è riusciti a trasferire in Turchia circa duecento espulsi. In pratica è come cercare di svuotare un lago alimentato da un fiume con un rigagnolo. Nel frattempo coloro che sono arrivati dopo il 18 marzo sono di fatto dei detenuti che scontano la lentezza della procedura con quella che di fatto è una prigione dietro inferriate e reticolati.
La questione di Lesbo e l’accordo con la Turchia perché porti fuori dall’Europa diverse decine di migliaia di migranti in cambio di 3 miliardi di euro da stanziare subito (e altri 3 entro il 2018 sulla base dei risultati conseguiti) è la conclusione mercantile dell’impossibilità di risolvere il problema dei profughi in Europa attraverso la solidarietà. Si ricorderà certamente che nel settembre dell’anno scorso a Bruxelles si era raggiunto un accordo a maggioranza per distribuire fra i vari paesi europei 120mila profughi che erano arrivati nei paesi del sud in primo luogo in Italia e in Grecia. Ebbene, dopo sei mesi da quell’accordo, non centomila e nemmeno diecimila profughi, ma solo appena poco più di mille sono stati delocalizzati dall’Italia e dalla Grecia in altri paesi. Contro quell’accordo votarono contro Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania. La Finlandia si astenne. Dopo gli attentati di Parigi e di Bruxelles il presidente ungherese Victor Urban, il presidente ceco Milos Zeman, il primo ministro polacco Beata Zrydlo, il presidente slovacco Robert Fico hanno accentuato la loro opposizione all’emigrazione affermando che i terroristi sono tutti profughi, anche se finora le indagini hanno dimostrato che gli autori degli attentati in Francia e Belgio sono belgi di origine marocchina nati sul suolo belga. D’altra parte questa teoria per cui con l’emigrazione si importa il terrorismo è in contraddizione con l’altra posizione di chi, per limitare al minimo l’emigrazione, si dichiara disposto ad accettare solo i profughi dalla Siria e dall’Iraq che sono paesi in guerra, ma anche i paesi che ospitano il terrorismo dell’Isis. Comunque alle parole sono seguiti i fatti. L’Ungheria in tutto il 2015 ha concesso il diritto d’asilo solo a 146 persone dopo aver creato muri antimmigrati lungo tutti i confini del paese. La Slovenia ha imitato l’Ungheria costruendo una barriera al confine con la Croazia. Ora anche l’Austria minaccia di chiudere il Brennero dopo aver buttato là la cifra di 300mila migranti che nel 2016 arriverebbero in Italia, mentre finora dall’inizio dell’anno ne sono arrivati 19mila. La Polonia con il nuovo governo di destra ha detto no anche all’accoglienza dei 7.500 migranti che era stata decisa dal precedente governo e finora ha accolto solo 150 profughi cristiani provenienti dalla Libia. Anche la Slovacchia dichiara di prendere dei profughi solo se sono cristiani oltre che siriani e nel 2014 ha concesso asilo politico appena a 14 richiedenti. Regno Unito e Danimarca hanno deciso di non partecipare alla redistribuzione. Germania, Francia e Spagna hanno promesso di redistribuirsi fra loro circa sessantamila profughi, ma solo se hanno lo statuto di rifugiati politici e nel frattempo a questo fine rafforzano i loro controlli alle frontiere.
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