Il coraggio che manca
Ogni giorno le notizie pongono domande sul senso della vita.
“Mi è mancato il coraggio di vivere la mia vita senza preoccuparmi di quello che gli altri si aspettavano da me”.
Si legge questa frase nel libro “Vorrei averlo fatto” nel quale l’infermiera Bronnie Ware ha raccolto i rimpianti dei malati che ha accompagnato nell’ultimo tratto della loro strada.
Quasi inavvertitamente la frase appare mentre ogni giorno si incrociano sulle pagine dei giornali e sui video le immagini dei profili e dei volti di tante persone che hanno conosciuto l’ingiustizia, l’umiliazione, il rifiuto, la morte violenta, l’indifferenza.
Un’interminabile esposizione di quadri di un’umanità sofferente e disorientata che trasforma quella frase in una domanda: “Perché ti è mancato il coraggio di vivere la vita senza preoccuparti di quello che noi aspettavamo da te?”.
Perché quel coraggio ti è mancato di fronte a quel bimbo di tre anni annegato e accoccolato sulla spiaggia di un mare europeo? Perché quel coraggio ti è mancato di fronte a quella bimba di tre anni che ha visto uccidere da due italiani il padre, immigrato ucraino, che cercava di sventare una rapina? Perché quel coraggio ti è mancato di fronte a quella donna che correva faticosamente con una bottiglia d’acqua in mano con la folla di profughi sulla strada di un Paese europeo? Perché quel coraggio ti è mancato di fronte a quella coppia di anziani violentati e uccisi da un immigrato africano?
L’elenco delle domande è senza fine ma non sono attese risposte dirette a tragedie che sono lontane dagli occhi di quanti le incontrano nei racconti mediatici.
Tuttavia questa distanza non giustifica l’esonero dalla responsabilità di conoscere, di pensare e di valutare.
Non è, comunque, la risposta alla singola domanda che viene chiesta. Non si tratta di addossarsi il peso di fatti lontani. Si tratta di sostare in un colloquio con la propria coscienza, si tratta di non fermarsi alle emozioni.
Ai bordi della cronaca ci si imbatte ogni giorno in fatti che avvengono a distanza ravvicinata e che fanno rimbalzare il titolo di Bronnie Ware “Vorrei averlo fatto”.
Non un atto autoaccusatorio, da cui sarebbe legittimo sfuggire, ma una provocazione e, ancor più, un appello. Forse un incoraggiamento al bene.
Ed è questa la responsabilità da assumere per far sì che le immagini forti dei media dopo aver provocato un soprassalto di umanità non si spengano in breve tempo.
“Mi è mancato il coraggio di vivere la mia vita senza preoccuparmi di quello che gli altri si aspettavano da me”. È una confessione che merita un rispetto incondizionato e invita a guardare a se stessi e agli altri con uno sguardo più attento, più profondo, più responsabile.
Per questo esercizio interiore i media, con tutti i loro limiti, possono diventare palestre di umanità. Possono diventare osservatori, pur disordinati e caotici, in cui è possibile guardare con occhi meno spenti alla propria e altrui storia.
Possono diventare luoghi in cui si scopre che ad attendere una risposta alla domanda “Che cosa gli altri si aspettavano da me?” non ci sono solo il piccolo annegato, la piccola che assiste all’uccisione del padre, la donna profuga in corsa sulla strada, la coppia di anziani barbaramente uccisi.
Ci sono coloro che abitano la stessa città, camminano sulle stesse strade, condividono la stessa fatica di vivere, sono nella comune ricerca della verità e della felicità, come tutti sbagliano spesso direzione ai bivi della storia.
Guardando a queste persone il titolo del libro di Bronnie Ware, “Vorrei averlo fatto”, da rimpianto potrebbe diventare incoraggiamento e auspicio per una cronaca che non abbia un solo colore.
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