La Pasqua dei cosentini nella prima metà dell’Ottocento
La tradizione pasquale della Cosenza nei primi dell'ottocento è ricca di eventi e di costumi secolari
Il 15 aprile 1843, Cosenza si apprestava a celebrare il Sabato Santo, con tanto di Gloria a mezzodì e, alla tristezza del giorno prima, anteponeva, già dalle prime ore del mattino, l’animazione propria della gioia della resurrezione ormai incipiente. Le cronache del tempo ci descrivono un corso principale brulicante di gente, percorribile a mala pena, a meno di non urtarsi vicendevolmente, avanzando tra mille difficoltà. Orbene, secondo quelle descrizioni, partendo dalla sua parte sommitale e pianeggiante, la cosiddetta “Giostra nuova”, avremmo incontrato venditori di salami, di brocche di pentole e tegami di varia foggia e capienza. Scendendo, poi, un venditore di barili e di catini. Poco dappresso panieri, ceste e ventagli. Dall’altro lato, la nostra vista sarebbe stata catturata da pile di arance e di limoni in bell’evidenza, come le “foglie” (verdure di vario genere) del resto, ammucchiate “alla foggia di una piramide”. Giunti, dopo, alla “piazza maggiore”, o del Duomo, avremmo incrociato mercanti di frumento, di legumi, di cuoio, di coltelli e di varia ferramenta. Mentre, scendendo verso quel tratto di strada detta “dei Mercanti”, ci saremmo imbattuti in un nugolo di contadine con le loro gerle ricolme di uova “a migliaia” e con le altre applicate a far vendita “di ogni razza di pollame”. Nella “piazza minore” (piazza piccola), invece, avremmo trovato i negozianti “di ogni carne”, assieme ai pastori con le loro “giungate (giuncate) e fior di siero” e gli immancabili ortaggi. Più giù, i pizzicagnoli capaci di appagare ogni richiesta e soddisfare ogni fine palato. Giunti alfine alla “arena” del Busento, avremmo visto mandrie di agnelli belanti, pronti ad essere sacrificati. Tornando successivamente, sui nostri passi, “sulla pesta battuta”, dinanzi al prospetto gotico della cattedrale ripristinato per lo zelo dell’arcivescovo Narni Mancinelli poi traslato a Caserta, da quell’ osservatorio privilegiato, avremmo fissato “gaie servette e vispi messaggeri” intenti a recapitare “strenne di gentili auguri” ed i “villani” portare sulle spalle villosi agnelli. Dunque, chi vendeva e chi comprava nel tumulto e nel vociare della folla, con i prezzolati banditori occupati a decantare con alte grida la bontà delle merci.
Sopraggiunto il suono delle campane a festa, il che, lo ripeto, in quel tempo avveniva a mezzogiorno di sabato, v’era una autentica esplosione di giubilo. Era come una scintilla gettata in una polveriera veniva sottolineato, ed allora tutto l’invenduto in agrumi ed in ortaggi andava per aria (per la gioia degli immancabili approfittatori). Alte grida di gioia, fragorosi battiti di mani, agitarsi di bilance, pigiar di mortai e spari di mortaretti e di fuochi artificiali accompagnavano lo scampanare continuo. Un vero e proprio tripudio quindi, quello scatenato allora dalla Pasqua “cosentina”, che non risparmiava davvero nessuno, anche nella sfera privata. Perché, se la fonte consultata è piuttosto avara di notizie sui riti religiosi che si accompagnavano alla resurrezione di Gesù (benché sia piuttosto facile immaginarli altamente solenni, ed esultanti del pari, quelli animati dal numeroso clero cosentino, col suo Pastore, Mons.Lorenzo Pontillo), ciononostante ci è noto come il lieto evento si vivesse, pure intensamente benché con maggiore raccoglimento, fra le mura domestiche. Sappiamo infatti che il suono delle campane avrebbe colto i genitori in ginocchio contornati dai figli, i quali subito dopo avrebbero avuto la benedizione dei primi. Vi sarebbe stato lo spazio, specie per i piccoli, da destinare al consumo di pochi dolci, e una lacrima (di gioia) avrebbe solcato il volto di tutti. La delicata scena familiare, così come ci è stata descritta, si sarebbe poi conclusa con l’accensione di un cero dinanzi alla croce di Cristo posta a capo del letto, spogliato del velo che l’aveva coperto nei giorni precedenti ed al quale sarebbe stato “offerto” un mazzolino di tenere violette tolto dal sepolcro. Quanta dolcezza.
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