Cattivi maestri
Un film racconta il “grande inganno” di Lance Armstrong.
È uscito in queste settimane, nelle sale cinematografiche di tutta Italia (negli Usa già da prima) “Tre Program”, il film che narra la storia di Lance Armstrong, uno dei ciclisti più famosi della storia. Si sarebbe potuto intitolare “Il Grande inganno” perché il corridore statunitense, sicuramente un fuoriclasse in partenza, a un certo punto non si accontentò più di quello che riusciva a ottenere in pista o su strada con le sue forze, ma cominciò a barare e a farlo sempre di più, arrivando a vincere 7 volte il Tour de France, record mai raggiunto, ma solo grazie all’aiuto del doping. La stessa definizione del film, “Tre Program” si riferisce al “programma”, cioè alla strategia di doping per correre sempre più forte, per avere più ossigeno e vincere a qualunque costo, illegalmente, ingannando tutti. Nessuno dimenticherà mai Armstrong nel bene e nel male. La sua vittoria più grande, quella che non gli leverà nessuno (i titoli sportivi glieli ha portati via, uno dopo l’altro, la Federazione internazionale) resta legata alla lotta contro il tumore al testicolo da cui si è ripreso alla grande. Ma l’aspetto più paradossale della sua parabola è che, nonostante i sospetti, solo la sua autoconfessione ha davvero svelato chi fosse Lance Armstrong.
In fondo è stato lui a fare e disfare la sua carriera, dimostrandoci che forse il grande inganno sarebbe potuto durare in eterno senza il suo intervento. Ai suoi tanti tifosi, ai milioni di appassionati di ciclismo, resta un senso di vuoto, perché devono azzerare intere stagioni e competizioni falsate da questo signore, traditi da un campione di menzogne. Il film segue una narrazione fluida, incalzante, sceneggiato con la consueta passione da Ben Lodge. Riassume in modo realistico i sette anni famelici dell’eroe divenuto rinnegato, la sua lotta contro il tumore con vittoria finale che apre le porte anche all’istituzione di una fondazione benefica.
C’è però una visione un po’ troppo asettica da parte del grande re gista Stephen Frears, quasi volesse far giudicare solo allo spettatore l’esito finale, scansando ogni tipo di verdetto di condanna o assoluzione. Troppo facile così. Altre opere di Frears, come “The Queen”, apparivano più partecipate. In questo senso forse ci voleva un pizzico di coraggio in più, occorreva far capire a tutti, senza “se” e senza “ma”, che l’uomo che su una bici per oltre un decennio sembrava Superman, ci ha ingannati tutti: può averlo fatto con sublime arguzia e sottigliezza, ma resta pur sempre un mistificatore. Non vorremmo altrimenti che dalla pellicola uscisse ancora una volta il fascino inconfondibile del “bad boy”: di tutto i nostri ragazzi hanno bisogno fuorché di un altro “cattivo maestro”, stavolta della pedalata.
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