Giocatori, ma soprattutto uomini eccezionali
In ricordo di Johann Cruyff e Cesare Maldini.
Mentre il calcio continentale sta per emettere i suoi verdetti che produrranno le semifinaliste di Champions e si prepara a un Europeo senza una squadra dominatrice ma con tante outsider, quasi più attento all’allarme sicurezza che a quanto succederà in campo, ci piace ricordare, a distanza di qualche giorno ormai, due giganti che ci hanno lasciato: Johan Cruijff e Cesare Maldini. Calcisticamente, due fenomeni agli antipodi: uno profeta del calcio totale, l’altro emblema del gioco all’italiana; ma per quello che hanno rappresentato, per l’esempio dentro e fuori dal campo, possono essere accomunati in un unico ricordo e soprattutto in un unico struggente rimpianto per un calcio radioso e spettacolare che raramente ormai riusciamo ad ammirare. Entrambi trascinatori, capaci col loro carisma, di creare emuli, portando le loro squadre a risultati insperati e insegnando ai giovani e poi alle formazioni più blasonate sempre con grandi exploit. Più polemico e guascone il primo, che con gli Orange aveva dovuto combattere con il suo demiurgo Michels i mulini a vento di quella che fino a quel momento era l’ortodossia pallonara. Più ieratico e silenzioso il secondo, ma in grado di essere già secondo allenatore, una sorta di longa manus del “paròn” Nereo Rocco in campo, fraterni sodali entrambi triestini e capaci, con una battuta in dialetto, di capirsi al volo.
Su Cruijff calciatore si sono scritti libri interi e Sandro Ciotti ne fece un film straordinario, ma forse si è detto poco di come, con la sua gestualità, fosse già leader con la testa prima ancora che con i piedi. Una storia, la sua da calciatore, che se a livello di club ha avuto con Ajax e Barcellona i giusti allori, con la nazionale è rimasta incompiuta, perché rimasta orfana di un Mondiale che avrebbe strameritato (quello del 1974, mai più ci fu un torneo iridato così ricco di squadroni in tutta la sua storia) un po’ come avvenne per l’Ungheria di Puskas, entrambi beffati in finale da un’indomita Germania. Maldini aveva un modo elegante di difendere, nell’era in cui rudezza e approssimazione popolavano le nostre aree di rigore: con il Milan fu il primo italiano ad alzare la Coppa dei Campioni nel 1963 a Wembley ed è incredibile come il suo Dna sia passato in campo a suo figlio Paolo, se possibile ancora più vincente di lui. Per quelle strane combinazioni che ogni tanto succedono nel calcio e nella vita, Paolo arrivò a sollevare la sua prima Champions da capitano (ne aveva già vinte due) 40 anni esatti dopo e sempre in Inghilterra come papà Cesare (allora fu a Manchester contro la Juventus). Anche il figlio di Joahn, pur non essendo un campione, non se la cavava male a calcio: il papà aveva scelto di chiamarlo Jordì in onore del patrono di Barcellona in tempi in cui i franchisti ancora lo vietavano (agli spagnoli) perché simbolo della volontà indipendentista della città: da olandese quindi, divenne più catalano dei catalani.
Entrambi poi furono vincenti anche da allenatori: Joahn porto il Barcellona a superare il complesso d’inferiorità con il Real conquistando in panca la prima Coppa dei Campioni “blaugrana” (anche lui a Wembley, nel 92, contro la Sampdoria), Cesare, secondo di Bearzot ai Mondiali trionfali ’82, fu poi fermato solo ai rigori ai quarti da ct della Nazionale ai Mondiali di Parigi contro i padroni di casa, mentre trionfò più volte agli Europei con gli azzurrini under 21. A Milano e Barcellona intanto per l’ultimo commiato, lacrime e commozione tra i grandi del passato, i loro vecchi club, i nuovi campioni, ma soprattutto tra la gente comune che sa di aver perso qualcosa di meraviglioso, che non potrà più tornare. Come giocatori, ma soprattutto come uomini.
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