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La datazione dei testi è con molta probabilità antecedente rispetto al lavoro di traduzione fatto nel IV secolo d.C. 

Tradotti in italiano i codici di Nag Hammadi

Il corpus scoperto nell’Alto Egitto è composto da trattati distinti per genere e contenuto

Tradotti in italiano i codici di Nag Hammadi

Nel nuovo volume edito da Carocci intitolato “I codici di Nag Hammadi – Prima traduzione italiana integrale” sono state raccolte le traduzioni di un gruppo di esperti che ha reso disponibile, per la prima volta in italiano, i manoscritti rinvenuti casualmente, nel dicembre del 1945, su una formazione rocciosa chiamata Jabal al-Tārif, a 5 chilometri a nord di Nag Hammadi (l’antica “Chenoboskion”) nell’Alto Egitto. Fu ritenuto dal primo momento uno dei più grandi ritrovamenti codicologici, archeologici e letterari del novecento, che ha inciso enormemente sugli studi del Cristianesimo antico, sulla filologia del Nuovo Testamento e sulle altre ricerche bibliche. Andrea Annese, Francesco Berno e Daniele Tripaldi, i curatori del libro specializzati in Storia del Cristianesimo antico, hanno provato a ricostruire, con l’aiuto di altri ricercatori, le storie e le varie fasi linguistiche dei manoscritti di Nag Hammadi, abbattendo l’idea che questo corpus costituisca un’unica fonte di verità. Le traduzioni, verosimilmente dal greco o forse anche dal siriaco, sono accompagnate da aggiornate introduzioni e da un agile apparato di note, insieme ad un’ampia spiegazione sul metodo usato per realizzare questo lavoro, ad una presentazione e interpretazione dei “colofoni” dei codici e ad un saggio che contestualizza i reperti nell’ambito della letteratura copta, senza tralasciare il dibattito contemporaneo sugli stessi oggetti. Il mancato interesse, fino a poco tempo fa, nei confronti dei codici di Nag Hammadi e la scarsa presenza di esperti di copto, l’antico idioma che rappresenta l’ultimo stadio evolutivo dell’egiziano arricchito di elementi greci, ha ritardato la pubblicazione in Italia di questi testi. Le condizioni di scoperta di questo fondo codicologico costituito da dodici manoscritti, più alcuni fogli di un tredicesimo esemplare, rilegati in pergamena con del cartonato dentro e scritti su papiri, sono avvolte nel mistero. Le due principali fonti che si possiedono per ricostruire il ritrovamento di Nag Hammadi sono i resoconti di due grandi studiosi: l’archeologo francese Jean Doresse (Le livres secrets des gnostiques d’Egypte), il primo che ha cercato di capire, intorno agli anni cinquanta, come sono stati rinvenuti questi reperti, e il biblista americano James M. Robinson (The Nag Hammadi Story: From the Discovery to the Publication) che, negli anni settanta, cercò di approfondire questa straordinaria biblioteca emersa in Egitto e curò una delle pubblicazioni più autorevoli. Sulle origini di questi trattati vi sono tesi discordanti. Secondo alcuni la traduzione dei testi originali, purtroppo smarriti, si è concretizzata in qualche realtà monastica dell’Alto Egitto (“ipotesi paconiana”). Bisogna tener presente che il mondo monastico era un universo aperto a scambi continui con la realtà esterna, da cui riceveva svariati stimoli linguistici e religiosi. La diversità ed eterogeneità linguistica e teologica dei codici di Nag Hammadi avvalorerebbe questa tesi. In più i monaci erano soliti raccogliere l’eredità di più correnti culturali, come quella platonica, e avevano tendenze ascetiche, mistiche e gnostiche. Molto probabilmente nascosero questi manoscritti in seguito alla divulgazione, nel 367 (IV secolo d.C.), della 39° lettera festale rivolta a tutte le Chiese d’Egitto e redatta dal vescovo Attanasio, ottavo papa della Chiesa copta dal 328 al 373, con cui venne sancito che solo i 27 libri del Nuovo Testamento dovevano essere considerati canonici e che il resto dei testi eterodossi, tra cui quelli di Nag Hammadi, doveva essere distrutto. Robinson riferì una sorta di racconto rocambolesco, a metà tra realtà e finzione, secondo cui alcuni beduini del villaggio di al-Qasr, in cerca di un fertilizzante, si imbatterono misteriosamente in una giara di terracotta che temevano essere abitata da un genio. Nella speranza di trovare un tesoro nascosto, la ruppero e fecero la scoperta di vecchi manoscritti papiracei che portarono a casa loro. Poi questi oggetti furono dati ad un sacerdote copto della zona, Muhammad Alì, che li avrebbe riportati, tramite un amico, in Cairo per rivenderli. Pare che la madre di questo capo avesse usato vari fogli per accendere il focolare domestico. È molto probabile che questa gente fosse coinvolta in attività archeologiche finalizzate a scopi personali, per cercare tesori. Un’altra corrente vuole che questi manoscritti abbiano radici gnostiche (“ipotesi gnostica”) connesse all’opera di vari intellettuali interessati all’esoterismo, al misticismo e, appunto, allo gnosticismo, quel complesso di dottrine e di movimenti spirituali, sviluppatosi in età ellenistico-romana e fiorito a fianco del Cristianesimo antico, che pone al centro di tutto la gnosi (conoscenza) da cui dipenderebbe la salvezza spirituale, il cui conseguimento costituirebbe la beatitudine promessa agli adepti. Agli inizi degli anni cinquanta i codici finirono al Cairo e il primo dei volumi copti venne venduto e acquistato dal famoso psicologo del profondo, Carl Gustav Jung. Nel 1956 i documenti furono raccolti in un unico corpus, oggi conservato presso il Museo copto del Cairo. Negli anni settanta sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità e l’Unesco, con il ministero della cultura egiziano, ha finanziato la prima edizione critica dell’opera a cura di James M. Robinson, che si è occupato della doppia traduzione in copto e in inglese. I testi originali risalgono, con molta probabilità, al II-III secolo d.C., quindi sono molto più antichi rispetto all’epoca in cui sono stati tradotti e raccolti insieme a Nag Hammadi (anni 50/60 del IV secolo d.C.). Siamo dinnanzi a trattati teologici, filosofici, apocalittici, orazioni, atti degli apostoli, lettere, brani ermetici, testi gnostici (l’apocrifo di Giovanni, le tre stele di Seth, Zostriano, il Vangelo della Verità), frammenti della Repubblica di Platone, altri vangeli apocrifi (quelli di Tommaso, Filippo, Maria Maddalena, Giuda). È bene chiarire che i codici Nag Hammadi non formano una Bibbia gnostica per come la intendiamo noi oggi, sia per la natura variegata e non composita dei manoscritti, a livello formale e contenutistico, sia perché, all’epoca della loro composizione, non esisteva ancora un vero e proprio canone. Questa disomogeneità porta anche a pensare che siano stati realizzati come collezioni separate da più gruppi tribali, per i quali i suddetti reperti rispondevano a qualche utilità interna e possedevano una certa autorevolezza. Gli esperti hanno letto i codici nel pieno rispetto del loro carattere sacro e dottrinale, assumendo una prospettiva olistica e globale. In questo modo hanno superato il mero fenomeno eresiologico connesso allo gnosticismo, da sempre guardato con sospetto negli studi contemporanei, e la visione platonica e ascetica che spesso si rileva in questi trattati.

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