Corridoi umanitari, storie di profughi
Il 29 febbraio è atteso all'aeroporto di Fiumicino il primo gruppo di profughi dal Libano, grazie al progetto ecumenico dei “corridoi umanitari”. 93 persone in tutto, di cui 41 minori. Tra loro c'è anche Dia, un bimbo di 8 anni che ha perso una gamba sotto i colpi di un mortaio ad Homs. Sarà accolto dalla Fondazione Zanardi a Bologna dove gli verrà costruita una protesi.
Gli occhi vispi ed uno sguardo allegro da furbetto. Dia è un bimbo di 8 anni. Stava giocando con i suoi amici ad Homs quando un colpo di mortaio è precipitato davanti all’ingresso della sua casa colpendo in pieno il gruppetto. A lui la bomba ha falcidiato una gamba. In Italia Dia verrà accolto dalla Fondazione Zanardi di Bologna che grazie alla Associazione “Bimbi in gamba” si occuperà della costruzione della protesi.
Ci saranno anche Dia e la sua mamma nel gruppo di profughi provenienti dal Libano in arrivo il 29 febbraio all’aeroporto di Fiumicino. 93 persone in tutto. 41 sono minori, il più piccolo è Omar che ha visto la luce solo qualche giorno fa. In un tempo di naufragi e morti in mare, raggiungeranno in tutta sicurezza e legalmente l’Italia grazie al progetto ecumenico dei “corridoi umanitari”. Una iniziativa-pilota che si realizza nel quadro di un accordo firmato a metà dicembre tra governo italiano, Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), comunità di Sant’Egidio e Tavola valdese.
Tra chi invoca muri e chi ponti, in un’Europa che non riesce ancora a concepire una soluzione “politica” alla sfida dell’accoglienza, il progetto dei corridoi umanitari si propone come una via di migrazione sicura sia per chi parte sia per chi riceve. Le persone vengono scelte in base ad un criterio di vulnerabilità. A spiegare come si svolge in loco il lavoro è Sara Manisera che insieme a Simone Scotta e Francesco Piobbichi sono i responsabili del Progetto Mediterranean Hope che da Beirut coordinano il corridoio umanitario.
“Visitiamo ad una ad una le famiglie segnalate – racconta Sara – avvalendoci anche dell’aiuto di un medico italiano, Luciano Griso. Si verificano i documenti e facciamo compilare un questionario qualitativo in cui oltre alle generalità, vengono segnalati titolo di studio e professionalità in modo da favorire, una volta arrivati in Italia, l’inserimento”. A questo punto viene inviata al Ministero dell’Interno la lista dei nomi e dopo aver preso in ambasciata le impronte digitali, le famiglie possono prendere il volo.
È seguendo questo iter che il 4 febbraio scorso è già arrivata in Italia la famiglia di Falak, una bimba malata di tumore. Anche questa volta la maggior parte dei profughi proviene da Homs, città siriana ormai rasa al suolo. Altri sono iracheni, tutti in fuga da guerra e persecuzione, tutti in condizione di particolare vulnerabilità. Tornare a casa per loro adesso è impossibile. Sono arrivati in Libano con l’idea di starci il tempo necessario per far finire la guerra. Ma i mesi sono diventati anni e i soldi messi da parte sono finiti, costringendo intere famiglie ad abbandonare gli appartamenti affittati per trovare rifugio prima nei garage poi sotto una tenda, nei campi profughi.
Giorgina è una giovane donna di 30 anni arrivata da Aleppo. Ha studiato economia, si è sposata e ora ha due bambini di cinque e un anno e mezzo. Ad Aleppo conduceva col marito una vita serena: avevano una fabbrica di manufatti in legno e un negozio all’interno della cittadella. Con la guerra hanno perso tutto. Lo scorso anno il bambino più grande ha subito un trauma psicologico da guerra e da allora ha smesso di parlare.
C’è poi la storia di Badia, una donna di 50 anni, rimasta vedova. Per la sua generosità e intraprendenza, è diventata il punto di riferimento di un corposo gruppo di persone che arrivano dal campo profughi di Tel Abbas, a 4 chilometri dalla Siria. Erano tutti muratori, elettricisti, avevano una vita dignitosa, un lavoro, una casa. Anche loro hanno perso tutto. “Hanno avuto giusto il tempo di riempire qualche valigia e scappare via – racconta Sara -. Della loro vita passata sono rimaste solo alcune foto. È tutto il loro mondo”.
I corridoi umanitari. “È un progetto innovativo e sperimentale”, sottolinea Sara. “Innovativo perché è la prima volta che in Europa la società civile si organizza dal basso. Mette insieme realtà associative diverse e insieme si contatta, si media e si dialoga con il governo italiano. Ed è sperimentale perché il governo italiano ha risposto rilasciando mille visti per due anni ma questa esperienza può essere replicabile anche da altre organizzazioni in altri paesi con altri governi”.
Una volta in Italia, le famiglie saranno dislocate in diverse parti della penisola, ospiti delle strutture messe a disposizione dai promotori del progetto e dai loro partner: tra le mete figurano Trento, Reggio Emilia, Torino, Aprilia. Fervono un po’ dappertutto i preparativi per l’accoglienza. Ed è già partita la macchina della solidarietà: l’Alitalia, ad esempio, ha offerto i voli per i profughi.
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