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Economia. Moro (C7): “Risposte politiche efficaci se sono le comunità ad elaborarle, con un esercizio di partecipazione”

“C’è uno spazio per dialogare, per incidere”, afferma il docente, sottolineando come “il tipo di dialogo che noi sosteniamo crea cultura e oggi abbiamo dai governi delle proposte che non esistevano 20 o 40 anni fa; e i governi usano spesso un linguaggio che è quello che la società civile negli ultimi decenni ha proposto”. Tre indicazioni per ridare speranza a quei Paesi e popoli ancora vulnerabili: una nuova iniziativa sul debito, un impegno globale verso la tassazione equa e progressiva e sulle tassazioni internazionali e una migliore regolazione dei mercati finanziari e del commercio. Oltre ad un forte richiamo in favore della pace

Economia. Moro (C7): “Risposte politiche efficaci se sono le comunità ad elaborarle, con un esercizio di partecipazione”

“Si tratta di tre studiosi brillanti, che hanno dato un contributo originale e interessante. In sostanza dicono che laddove abbiamo istituzioni economiche inclusive si ha anche un miglioramento del benessere, un’economia che si distribuisce, migliori condizioni economiche, perché il mercato funziona meglio. La loro impostazione però considera in realtà praticamente solo la dimensione delle relazioni economiche guidate dall’interesse. L’economia è una dimensione della vita sociale, ma non l’unica, non credo che sia efficace e corretto vederla in modo slegato dagli altri elementi della vita sociale. Anzi, credo che l’economia sia assolutamente innervata all’interno delle altre dimensioni della vita sociale e da essa è influenzata; ci sono dimensioni di natura culturale, etica… L’impostazione dell’homo economicus non interpreta esaustivamente i comportamenti delle persone; se fosse così non si capirebbe da dove arrivi il movimento cooperativo, che è una realtà in molti Paesi, o non si capirebbe da dove arrivino le regole del welfare, il pagamento delle tasse per concorre al miglioramento della comunità alla quale apparteniamo”. Riccardo Moro, docente di Politiche dello sviluppo all’Università degli studi di Milano, coordinatore nel 2000 della Campagna giubilare della Cei per la remissione del debito estero ai Paesi poveri e presidente di Civil7, la rete della società civile internazionale che dialoga con il G7 a presidenza italiana, commenta così al Sir l’assegnazione del Premio Nobel per l’economia 2024 a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson, autori di studi con i quali hanno dimostrato l’importanza delle istituzioni sociali per la prosperità di un Paese.

Professore, come ha reagito alla notizia di un Nobel per l’economia assegnato a chi ha promosso studi che analizzano le dinamiche che hanno generato le enormi differenze di reddito tra i Paesi?
La scelta dell’Accademia di Stoccolma di quest’anno in realtà non premia studi sulla lotta alla disuguaglianza, quanto studi di analisi più che altro storica, che tentano di elaborare teorie generali. Ma è un fatto che negli ultimi anni sono stati premiati economisti che si sono occupati dei divari tra Nord e Sud del mondo, dei fallimenti dell’economia o più precisamente dei fallimenti del mercato. Il primo di questi, con una scelta di grande significato, Amartya Sen nel 1998, con un riconoscimento attribuito ad un personaggio che stava già esercitando una sorta di magistero a livello internazionale e istituzionale; basti pensare alla sua creazione del concetto di sviluppo umano, che fa nascere presso le Nazioni Unite, lo Undp (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) che calcola ogni anno l’indice di sviluppo umano. Lo studio dei tre economisti premiati quest’anno è dedicato a riflettere su quali condizioni, cioè quali regole, possono generare i benefici dell’economia di mercato e dunque sull’importanza delle istituzioni economiche. È un punto importante perché da molti anni oramai sappiamo che

la perfetta efficienza del mercato è un mito perché per ottenere i benefici di quella che è l’interazione di tanti operatori che insieme convergono sullo spazio della produzione, degli scambi, sono necessari moltissimi requisiti che non sempre si determinano nella realtà, dalla perfetta informazione degli operatori a una equa distribuzione delle risorse iniziali…

Cosa concretamente si può fare per un progresso diffuso che non lasci nessuno indietro, sia sostenibile e rispettoso della dignità delle persone, dell’ambiente…?
Oggi abbiamo delle gravi disuguaglianze nel pianeta, anche economiche. E queste in molti casi impattano gravemente sulle condizioni di vita di milioni di persone. Proprio per quello che dicevo prima, per la pluralità degli elementi in gioco che determinano la complessità delle situazioni, la risposta è provocatoriamente semplice e apparentemente somigliante a quella dei tre premi Nobel: la democrazia.

Le risposte politiche per identificare le direzioni verso cui orientare il cambiamento e per cominciare a muoversi per realizzare quel cambiamento non possono essere definite da “esperti”, non possono essere elaborate esclusivamente attraverso analisi teoriche, ma sono definibili e potenzialmente efficaci se sono le comunità che le elaborano, con un forte esercizio di protagonismo e partecipazione.

Questa è l’impostazione figlia della riflessione di Amartya Sen, che origina anche esperienze nuove come ad esempio quelle delle Comunità energetiche. L’idea dello sviluppo umano non sta nel mettere a disposizione delle attrezzature, delle ricchezze o delle opportunità, ma nel creare le condizioni perché ogni persona, come dice Sen – o ogni comunità, come io preferisco dire –, possa scegliere il proprio futuro e lavorare per realizzarlo. Bisogna investire in percorsi in cui la “ownership” (responsabilità verso gli altri, ndr) è valorizzata, il percepire che il nostro futuro mi riguarda, mi appartiene e ne ho cura. A livello internazionale, l’Agenda 2030, almeno sulla carta, è questo: una serie di obiettivi che hanno anche contenuti etici – il non lasciare indietro nessuno, i diritti, la pace… con una piattaforma comune che ogni nazione decide come usare personalizzandola. Certo, dobbiamo fare i conti con una forte lentezza da parte degli Stati a realizzare questo anche perché ci sono delle grandi resistenze da parte di chi ha potere politico e di chi ha potere economico. Le élite, come dicono i tre studiosi, non sempre sono disponibili a lavorare in termini di solidarietà. Ma questa è la prospettiva della Agenda 2030.

Come le opinioni pubbliche e la società civile possono incidere su istituzioni, governi, comunità internazionale affinché si adoperino per far sì che gli squilibri vengano ridotti?
Il ruolo della società civile organizzata, cioè delle organizzazioni delle società e delle loro reti, oggi nel mondo è esattamente questo; c’è una capacità certamente molto maggiore rispetto al passato, anche perché gli strumenti della globalizzazione, di Internet… hanno permesso facile comunicazione e scambi efficaci. Questo ha rafforzato la creazione e l’articolazione di reti nazionali e internazionali di società civile che riflettono su questi temi e che oggi hanno un dialogo molto intenso con le istituzioni internazionali e con i governi. Come Civil7 si discute in modo approfondito dei programmi e delle politiche che i Paesi del G7 hanno o vogliono realizzare.

C’è uno spazio per dialogare, per incidere. Certo, questo dialogo ha un’efficacia apparentemente limitata: il potere dei governi, e l’influenza, ad esempio, dei grandi gruppi finanziari e industriali è molto maggiore di quello delle organizzazioni della società civile. Ma il tipo di dialogo che noi sosteniamo crea cultura e oggi abbiamo dai governi delle proposte che non esistevano 20 o 40 anni fa; e i governi usano spesso un linguaggio che è quello che la società civile negli ultimi decenni ha proposto. L’Agenda 2030 è un esempio di questo.

Nel 2000 lei coordinò la Campagna giubilare della Cei per la remissione del debito estero ai Paesi poveri e oggi. Alla vigilia di un nuovo Giubileo, cosa andrebbe fatto per ridare speranza a quei Paesi e popoli ancora vulnerabili?
Considerando la dimensione delle risorse finanziarie direi che sarebbe necessario intervenire su tre fronti. Il primo è quello del debito che sta tornando ad essere un problema grave per molti Paesi a basso e medio reddito, perché ciò che si definì nel 2000 per gestire nuovi prestiti e orientarli verso la sostenibilità non è sempre stato rispettato, a causa delle crisi internazionali e per i comportamenti spregiudicati di alcuni attori.

Oggi è necessaria una nuova iniziativa sul debito, più impegnativa del passato perché gli attori in gioco sono diversi. E a questo si sta effettivamente lavorando.

Un secondo ambito è quello di un impegno globale verso la tassazione equa e progressiva e sulle tassazioni internazionali. Oggi ci sono strumenti per la tassazione internazionale, ma ancora troppo deboli e vanno rafforzati. Infine una migliore regolazione dei mercati finanziari e del commercio internazionale, nodi sistemici che oggi alimentano disuguaglianze. Ma oggi non può non essere espresso anche un forte richiamo in favore della pace. È impressionante vedere come la guerra susciti consenso. La preoccupazione è grande non solo per il numero di vittime, ma per il cancro che la violenza e la guerra comportano nella vita sociale in tutto il mondo.

Economia. Moro (C7): “Risposte politiche efficaci se sono le comunità ad elaborarle, con un esercizio di partecipazione”
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