I ragazzi down raccontano buone pratiche
I ragazzi e gli operatori dell’associazione “Down Verso” di Como hanno compiuto un viaggio - che diventerà presto un documentario - attraverso alcune città del Nord e Centro Italia alla ricerca di realtà che promuovono l’autonomia e l’inserimento lavorativo di persone con disabilità.
“Apocalypse Down”. Hanno scelto di giocare con il titolo di un famosa pellicola di Francis Ford Coppola, gli operatori dell’associazione “Down Verso” di Como per il documentario che racconta il loro percorso attraverso le eccellenze del Centro e Nord Italia in tema di autonomia delle persone con la sindrome di Down. Un viaggio, realizzato nella primavera del 2015, a cui hanno partecipato quattro ragazzi, inseriti nel percorso verso l’autonomia dell’associazione, accompagnati da tre operatori e una telecamera lungo un itinerario che ha toccato Milano, Torino, Livorno, Modena, Verona e Pordenone.
Dal documentario, in fase di montaggio ma di cui è stata presentata a Como un’anteprima all’interno del Convegno “Le chiavi di Casa”, emerge l’immagine di un Paese dove si sono fatti passi avanti nei percorsi di autonomia seppur le realtà virtuose restino spesso isolate. “Negli ultimi anni – spiega Sergio Silvestre, presidente dell’associazione Coordown – gli stanziamenti da parte del governo all’interno del progetto Pro.Vi (progetto vita indipendente) sono aumentati, ma ora serve un cambio culturale. La convenzione delle Nazioni Unite per le persone con disabilità, sottoscritta nel 2006, stabilisce il diritto all’indipendenza di ogni individuo, ma perché questo diventi realtà concreta è necessario lavorare in rete tra pubblico e privato nell’ottica della sussidiarietà”.
Come nel caso della “Casa al sole” di Pordenone, dove la Fondazione Down Friuli Venezia Giulia onlus lavora fianco a fianco con l’azienda per l’assistenza sanitaria locale, gestendo un appartamento in cui gli “inquilini” imparano a gestire ogni aspetto della vita domestica: fare la spesa, cucinare, pulire, pagare le bollette e, più in generale, convivere. “Si tratta di un percorso graduale – racconta Pamela Franceschetto, assistente sociale dell’Asl di Pordenone – che viene compiuto con l’aiuto di operatori che, nell’arco di tre anni, passano da una presenza fissa a un sostegno esterno”. Solo al termine di questo percorso i giovani sono pronti a lasciare la casa per continuare la loro vita autonoma in uno dei cinque appartamenti “satelliti” gestiti dall’associazione. Dal suo lancio nel 2011 sono 19 i giovani che hanno ultimato questo percorso. Una soluzione che, a detta degli operatori, non ha risvolti positivi solo per le persone con disabilità, ma anche per i Comuni perché i costi di gestione di un appartamento – dove i singoli ragazzi pagano un affitto – sono nettamente inferiori rispetto a quelli di una tradizionale struttura residenziale. Quella di Pordenone è una delle realtà maggiormente all’avanguardia nel panorama nazionale, ma non certamente l’unica. C’è però un altro grande ostacolo all’indipendenza delle persone con disabilità: il lavoro. Perché, come precisa Sergio Silvestre, “non si può pensare a un progetto di vita indipendente senza un percorso d’inserimento lavorativo”. “Eppure – prosegue – siamo al paradosso di un Paese in cui, quando si parla di lavoro e disabilità, si dà il dato dell’occupazione (circa il 15%) invece che quello della disoccupazione. In Italia abbiamo circa l’80% dei disabili che non lavorano, nonostante in molti potrebbero farlo se solo fossero messi nelle condizioni”.
Lo dimostrano i giovani lavoratori e le lavoratrici di “Ca’ moro” a Livorno, un vecchio veliero ancorato al porto vecchio della città e trasformato dalla cooperativa “Il parco del Mulino” in un social bateau, un ristorante dove il pianista, i camerieri, i cuochi e i loro aiutanti sono persone con la sindrome di Down. “Attualmente – racconta il responsabile Marco Paoletti – sono 8 i lavoratori svantaggiati assunti dalla cooperativa che, oltre al ristorante, gestisce anche un B&B e un spazio per la sosta dei camper. Quello che cerchiamo di fare è unire l’aspetto commerciale, perché siamo un’impresa a tutti gli effetti e dobbiamo pagare gli stipendi, a quello sociale. Ai nostri clienti chiediamo infatti di apprezzare non solo i piatti che proponiamo, ma anche il messaggio che ci sta dietro: dare una vita migliore a persone con disabilità”.
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