Io, sacerdote, a fianco di quei marinai sconvolti dal naufragio
Padre Mario Fugazza, missionario comboniano a Palermo, è l'animatore di una comunità di filippini. In questa veste ha risposto alla richiesta di assistenza spirituale da parte dell'equipaggio della King Jacob, la nave intervenuta (18 aprile) per salvare i migranti. Ma quei giovani marinai hanno salvato solo 22 persone, mentre ne hanno visto morire altre 700. Un autentico choc difficile da superare
Perché scrivo questo articolo? Meglio, questi appunti di riflessione? Perché quando sono salito sulla nave, la King Jacob, venerdì 24 aprile, alle 4 del pomeriggio, ho visto che c’erano diversi giornalisti appostati da ore, smaniosi di essere al mio posto e avere il privilegio di salire a bordo, di parlare con questo equipaggio e raccogliere in presa diretta le impressioni, emozioni e i racconti di questi giovani uomini che hanno vissuto un’esperienza unica: vedere morire 700 immigrati e riuscire a salvarne solo 22 in una notte di navigazione.
Eppure vedermi passare in mezzo a quei giornalisti, con la possibilità d’incontrare faccia a faccia coloro che avevano vissuto un evento così importante della storia mi faceva venire i brividi e mi caricava di responsabilità.
Io non so se sono stato capace di cogliere gli elementi importanti, oppure se ci sono passato attraverso con occhi miopi e con scarsa capacità analitica.
Comunque, ciò nonostante, mi sento carico di responsabilità e desideroso di fissare, raccontare e condividere, ora che è possibile, gli stati d’animo, gli occhi e le emozioni di questi uomini e di questi momenti.
La vita a volte ci mette davanti sfide ed eventi più grandi di noi, delle nostre capacità di gestirli, di affrontarli. E la maniera con cui ci si trova coinvolti non dà libertà di scelta, o possibilità di declinare l’invito. Allora ci viene spontaneo chiedersi: come mai io? Come mai noi? Eppure questi eventi in qualche modo ci trasformano, ci cambiano nel profondo, come una nuova iniziazione, un battesimo, che ci fa fare un salto di qualità in noi stessi. E a questo appuntamento si giunge per caso, o forse nulla avviene per caso. Comunque, nella possibilità di scegliere, avremmo detto: no grazie.
Ho condiviso questi pensieri con i 18 membri dell’equipaggio della nave, la King Jacob, che si erano trovati coinvolti, una settimana prima, tra sabato 19 e domenica 20 aprile, nel tentativo di salvare un numero enorme di immigrati, più di 700, e che poi alla fine ne hanno salvati solo 22.
Mi sono trovato anche io coinvolto in una cosa più grande di me, quando mi è stato chiesto di dare assistenza spirituale a questo gruppo di marinai, che aveva chiesto un sacerdote, arrivati a Palermo dopo che avevano vissuto la tragedia di vedere tanti immigranti annegare e trovarsi nell’impossibilità di salvarli. Un’esperienza unica nella loro vita e irripetibile.
Salito sulla nave, non sapevo come avrei affrontato la situazione: il popolo filippino è di per sé un poco chiuso e riservato, non si apre facilmente e si mostra restio a manifestare sentimenti ed emozioni. Questi ragazzi in più avevano vissuto un’esperienza terribilmente traumatica. C’erano ragazzi di 19 e 20 anni. Altri più grandi e con maggior esperienza. E io mi rendevo conto di potermi avvicinare in punta di piedi a questa loro esperienza.
Un anziano marinaio (anziano rispetto agli altri, 55 anni, la mia età) è stato il primo a venire da me dicendo che voleva dare l’esempio e coraggio agli altri a dialogare con un sacerdote. Ciò che mi ha raccontato è stato il tentativo concitato di salvare quanta più gente era possibile, ma era notte e non c’era luce sufficiente e la gente in mare era troppa. Una situazione assurda.
Un altro ragazzi di 19 anni mi ha raccontato che ancora sentiva nelle sue orecchie le urla di questi immigrati e che di notte si svegliava con questo incubo. Ma mi ha raccontato di come avevano già salvato altri immigrati in alcuni precedenti viaggi e il modo con cui si era preso cura di loro, dandogli da mangiare e confortandoli. Questo giovane alla sua prima esperienza lavorativa mi ha suscitato una tenerezza grandissima per come ricordava il volto di questi che era riuscito a sottrarre dalla morte.
Questo evento ha trasformato questi ragazzi da gente che lavora a pagamento, in salvatori, li ha costretti a fare squadra, a formare un’unica mano, per salvare quante più vite potevano.
Ma quanti ne hanno salvati? Si può davvero sapere quanti nella nostra vita veramente riusciamo a salvare? Quante vite, quante situazioni, ci troviamo ad affrontare senza neppure saperlo ed accorgerci? Loro sanno che ne hanno salvati 22; oltre ai 207 nei due episodi avvenuti precedentemente nel mese di marzo di quest’anno. Ma comunque sono stati salvatori e soccorritori, non gente a pagamento. E lo hanno fatto insieme, come un’unica mano, un unico corpo. Perché da soli si è fortemente tentati di voltarsi dall’altra parte, di non vedere e scappare via.
E la domenica abbiamo celebrato insieme la Santa Messa e c’erano tutti. L’abbiamo celebrata sulla nave, sui tavoli dove questi 18 membri dell’equipaggio condividono il pane. Su questo altare abbiamo condiviso il pane della parola e della vita.
Durante la celebrazione dell’Eucaristia, momento più alto e intenso, abbiamo benedetto l’acqua e con quest’acqua ci siamo segnati, sulla fronte e bagnati gli occhi, ricevuto l’assoluzione dei peccati e chiesto guarigione da memorie e pensieri negativi.
Intorno al tavolo della loro mensa quotidiana abbiamo spezzato la parola del buon pastore, e ci siamo trovati anche noi pastori e pescatori pronti a dare la vita. E alla fine abbiamo condiviso il corpo di Cristo e il suo sangue, gesto di comunione con Gesù e il suo Regno.
Era con noi anche il capitano Ambrousi Abdullah, musulmano; anche lui ha partecipato a questo momento, un poco in disparte, eppure come capitano di quella nave è stato il primo di tutti a vivere e a imitare Gesù come Buon Pastore. Alla fine della Messa è venuto a scusarsi del fatto che non se l’è sentita di fare una preghiera sua propria ad alta voce in comunione con il resto del gruppo, ma nel suo cuore si è sentito molto coinvolto, nell’unica preghiera, di fronte allo stesso Dio. Anche un altro membro dell’equipaggio mi ha chiesto scusa per il fatto che non se l’è sentita di fare la comunione con tutti gli altri. E a me anche quelle parole sono giunte come un gesto di grande partecipazione, vicinanza e condivisione in tutto ciò che si era celebrato insieme.
Era stata chiesta l’assistenza spirituale, e per un caso si sono rivolti a me, conoscendo l’inglese e avendo a che fare con una comunità di filippini a Palermo. All’inizio mi chiedevo come avrei vissuto questa esperienza. Non sapevo neppure io che cosa fare, cosa dire, come relazionarmi con loro, che avevano visto tanta gente morire, che avevano vissuto un’esperienza simile. E mi era venuta pure la tentazione di scappare via…
Poi invece è stato un momento molto bello e profondo; anche io sono in qualche modo diventato parte di questo equipaggio e coinvolto nella loro esperienza traumatica e catartica.
Come persone trasformate hanno ripreso il cammino, via mare. A me è rimasto il sorriso di Roderick, enorme, vero, stampato sul viso, più forte di qualunque tragedia.
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