Liturgia: don Girardi, “rinnovare la vita delle nostre comunità”
La traduzione della terza edizione tipica latina del Messale Romano. È uno dei temi principali dell'assemblea generale straordinaria della Cei, che si apre oggi in Vaticano. "Non si tratta di una nuova riforma del Messale", precisa al Sir don Luigi Girardi, preside dell'Istituto di teologia pastorale di Padova: "Su alcuni punti particolarmente delicati - ad esempio, una diversa traduzione di alcune espressioni nel Padre Nostro o nel Gloria a Dio - dovremo aspettare la conclusione dei lavori dei vescovi, fino alla promulgazione del Messale"
“Non si tratta di una nuova riforma del Messale, ma della traduzione dalla terza edizione tipica latina”. A precisarlo, in relazione ad uno dei temi centrali dell’Assemblea generale straordinaria della Cei, che si apre oggi a Roma, è don Luigi Girardi, preside dell’Istituto di teologia pastorale di Padova, tra i relatori dell’assise. “Su alcuni punti particolarmente delicati – ad esempio, una diversa traduzione di alcune espressioni nel Padre Nostro o nel Gloria a Dio – dovremo aspettare la conclusione dei lavori dei vescovi, fino alla promulgazione del Messale”, anticipa al Sir.
Liturgia, “fonte e culmine” della vita della Chiesa, come ha sancito il Concilio. Perché la Cei ha scelto di dedicare un’assemblea straordinaria quasi interamente a questo tema?
Penso che il motivo immediato sia l’imminente conclusione dell’iter di traduzione del Messale Romano in terza edizione.
La promulgazione di un libro liturgico importante come il Messale non è una cosa di “ordinaria amministrazione”, ma intende orientare e dare nuovo impulso alla pratica celebrativa dell’Eucaristia. In altre parole, si mira a rinnovare la vita liturgica delle nostre comunità.
Ciò che si vuole riscoprire, quindi, è il modo in cui la liturgia è al cuore della vita della Chiesa, come “fonte e culmine” appunto. Da questo punto di vista, è molto importante che i vescovi riflettano e facciano riflettere sul valore della liturgia e su come essa possa dare un giusto equilibrio alla vita della Chiesa.
Il Papa, nella Evangelii gaudium, auspica una liturgia “in uscita”, che si nutra sempre di più della vita concreta del suo popolo. È così, sul nostro territorio?
L’essere “in uscita” può indicare anzitutto una tensione ideale e permanente: la Chiesa è mandata ad annunciare il Vangelo che ha ricevuto e accolto. Ma oggi indica un compito più concreto, ossia l’uscire da un modo abituale di pensare la vita cristiana e andare incontro alla realtà delle donne e degli uomini di oggi, imparando di nuovo come è possibile vivere il Vangelo in questo contesto e darne una testimonianza che ne mostri la novità e la forza umanizzante. A tutto questo la liturgia contribuisce facendo vivere ai fedeli che vi partecipano una esperienza di uscita da sé, di inserimento in una comunità, di apertura a Colui che ci viene incontro, di valorizzazione e trasfigurazione della nostra vita.
La liturgia, poi, in alcuni casi è diventata anche luogo di incontro con coloro che sono lontani o ai margini. Vivere anche con loro una esperienza di comunione è il modo più bello per realizzare un’uscita da sé e aprirsi a Dio.
Ci sono anche segni che vanno in controtendenza: liturgie vissute in modo intimistico, quasi privato, oppure arroccamenti su forme liturgiche che appartengono a contesti di un passato non più in sintonia con il presente ecclesiale. Si rischia così di non essere “in uscita”, ma di restare prigionieri dentro uno steccato che ci si costruisce.
Papa Francesco, oltre a darne un esempio con la novità da lui introdotta delle omelie mattutine a Santa Marta, parla spesso dell’importanza dell’omelia, che deve essere breve e comprensibile per tutto l’uditorio. I nostri parroci sono sintonizzati sul linguaggio giusto?
Proporre un’omelia è un compito importante, ma anche delicato. Hanno un grande peso le capacità e le sensibilità di ciascuno. Penso, però, che sia possibile aiutarci in questo compito mettendone a fuoco il senso. Con l’omelia si vuole che la Parola proclamata trovi accoglienza e attualizzazione anzitutto dentro la celebrazione stessa: il Cristo che è presente nella Parola proclamata è lo stesso che è presente nel Sacramento. Lo incontriamo perché illumini e dia senso alla nostra vita. L’introduzione al Lezionario dice che l’omelia deve guidare alla comprensione della Parola, aprire il cuore al rendimento di grazie, alimentare la fede nel Cristo che si fa presente, preparare alla comunione con Lui e ad una vita cristiana impegnata.
È utile formarsi a conoscere la Scrittura ma anche la cultura di oggi, coltivare una sintonia con la vita delle persone, lasciarsi interrogare e convertire dalla forza della Parola. Si deve vigilare invece sulla tentazione di usare il pulpito per altre finalità.
(Foto Siciliani-Gennari/SIR)
Durante l’assemblea si farà anche il punto sulla nuova edizione del Messale Romano. Quali sono le principali novità, e come incideranno sul “volto” delle nostre celebrazioni liturgiche?
Le eventuali novità si collocano soprattutto sul piano della traduzione di alcuni testi e dell’aggiornamento del Santorale. È chiaro che vi è soprattutto continuità:
non si tratta di una nuova riforma del Messale, ma della traduzione dalla terza edizione tipica latina.
Su alcuni punti particolarmente delicati (ad esempio, una diversa traduzione di alcune espressioni nel Padre Nostro o nel Gloria a Dio…) dovremo aspettare la conclusione dei lavori dei vescovi, fino alla promulgazione del Messale. Ma l’incidenza sul volto delle nostre celebrazioni passerà soprattutto attraverso il modo di celebrare: l’ars celebrandi. Si pensi all’importanza di valorizzare tutti i linguaggi del rito: dal canto in tutte le sue forme, al modo di usare gli spazi liturgici, alla promozione dei vari ministeri liturgici. Ogni comunità sarà chiamata ad affinare il proprio stile celebrativo, mettendo le proprie risorse a servizio della lode di Dio.
Al Sinodo che si è appena concluso, i giovani hanno chiesto liturgie più vive, capaci di interpellare maggiormente il loro vissuto quotidiano. Ci vuole un “supplemento di attenzione”, nel celebrare per loro?
Direi sì e no. Sì, perché i giovani ci mostrano in maniera evidente una realtà culturalmente nuova con cui dobbiamo imparare a fare i conti. Anzi, tante delle loro esigenze valgono per tutti, anche se magari le risposte possono essere un po’ diverse: una liturgia viva, significativa, coinvolgente. Il “no” che dico serve soprattutto a correggere il sì, soprattutto se questo significasse andare verso liturgie “giovanilistiche”.
Non ritengo utile incrementare oltre misura ambiti celebrativi legati a categorie di persone, come se dovessimo suddividere la Chiesa per fasce di età. I giovani sono membri della Chiesa e devono essere iniziati a vivere la liturgia della Chiesa.
La vera sfida è provare “con” loro a rendere significativa la nostra partecipazione alla liturgia. Probabilmente tutta comunità degli adulti dovrà lasciarsi provocare, ma anche i giovani dovranno convergere verso un modo comune di vivere la liturgia. Sarà questa la strada attraverso la quale lo stile delle celebrazioni si modificherà e si sintonizzerà con le esigenze del nostro tempo.
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