Dalla storia delle epidemie la precarietà della storia umana e la fiducia nella Provvidenza
Storia e letteratura sono le prime fonti a cui attingere per ricordare che ci sono stati episodi simili che hanno provato intere popolazioni nel corso dei secoli
L’estensione globale della minaccia del Coronavirus, che ha portato l’OMS a parlare di pandemia, sta mettendo a dura prova la dimensione fisica, psicologica, affettiva, emotiva, relazionale e sociale di tutte le nazionali del mondo. Mentre medici e ricercatori stanno lavorando per fronteggiare questa grave emergenza umanitaria, cercando cure e vaccini per debellare una volta per tutte questo male, non tardano a diffondersi a ritmo sostenuto le fake news che accrescono la psicosi, alimentando false speranze e giocando con la suscettibilità e la dignità della gente, tanto che la stessa OMS è giunta a coniare il termine “infodemia” per indicare la sovrabbondanza di informazioni, alcune attendibili altre infondate, che confondono gli utenti incapaci di avere una visione chiara e nitida della situazione e della sua evoluzione. Il Coronavirus è una grave epidemia che richiede una collaborazione da parte di tutti e un rispetto delle regole imposte dal governo, al fine di arginare la crisi e di tornare presto alla normalità.
La storia e la letteratura sono le prime fonti a cui attingere per capire che ci sono stati episodi simili che hanno provato intere popolazioni, colpite nel corso dei secoli da varie pestilenze e contro cui hanno opposto le armi della tenacia, della forza e, in misura maggiore, della fede in Dio. Proprio da queste fonti dobbiamo trarre proficui insegnamenti per affrontare quest’emergenza in maniera più matura e consapevole.
Per definire questo virus si usa storicamente l’appellativo “peste” che procura ugualmente uno sconvolgimento dell’esistenza umana, in termini di perdita di vite, cambiamento radicale delle abitudini, degenerazione psico-fisica. Ma quali sono le cause? Alcuni parlano di colpa, altri di destino, altri di predestinazione, altri ancora di espiazione dei peccati. Omero nella sua “Iliade” parla della peste nei campi degli Achei, riferendosi ad essa come un castigo divino. Lo scrittore ha una visione per lo più mitico - religiosa e sottolinea il fatto che l’ingiustizia umana deve essere punita. Se la morte è il destino a cui nessuno può sottrarsi, la peste è catarsi e riscatto. Per il Lucrezio del “De Rerum Natura”, che abbraccia invece una prospettiva naturalistico - materialista, la natura è difettosa e il male (la peste) vi agisce indisturbata. La Genesi, invece, ci insegna che l’uomo deve accettare il male come conseguenza della caduta dell’uomo dallo stato di purezza, a causa dei peccati di Adamo ed Eva. In altri passi della Bibbia, come nel primo libro di Samuele, si racconta di Dio che scatena una pestilenza sui Filistei colpevoli di aver rubato l’arca dell’alleanza.
Storicamente le cause di questa morte nera sono ricondotte alla diffusione del batterio “Yersinia pestis”, che ospita le pulci parassite dei roditori, dei ratti e di altri animali, che trattengono il batterio per molto tempo e poi lo sprigionano infettando anche gli uomini e disseminando la pestilenza. Altre cause sono connesse alle precarie condizioni igieniche delle città, dove circolano i topi che sono i principali portatori dell’epidemia. La peste si manifesta con la comparsa sulla pelle di bubboni o macchie nere, accompagnati da tosse e polmonite persistenti.
La prima descrizione scientifica della peste viene fatta dallo storico greco Tucidide. Nel V secolo a.c., durante la guerra del Peloponneso che oppone Atene a Sparta, Atene viene colpita dalla peste che manifesta i suoi drastici effetti sotto forma di fuoco nel corpo, piccole piaghe e ulcere. Si diffonde presso gli Ateniesi un senso di solitudine, scoraggiamento, demoralizzazione. Si tratta in realtà di un virus influenzale altamente contagioso e mortale che attacca i polmoni.
Dal Basso Medioevo fino al Rinascimento il mondo viene descritto come oscuro e malvagio e, per questo motivo, incute paura, genera angoscia e istiga alla violenza. Questa è la tendenza in voga dal 1300 quando si diffonde la peste nera, che reca con sé pessimismo e disperazione, senso del disprezzo e disgusto per la vita, presagio della fine del mondo. La scrittura del tempo presenta il regno del diavolo contrapposto a quello divino. Nella storia del Cristianesimo il distacco dal mondo viene visto come accusa contro il mondo che è luogo per eccellenza del peccato. La peste viene vista come momento intermedio di ammonizione e presentimento che porta al giudizio finale per i peccati commessi, a conclusione di quell’escatologia ciclica che ha avuto il suo momento iniziale nel diluvio universale. L’universo cattolico distingue tra la morte terribile del peccatore, preda di indomabili e inesauribili dolori fisici, e la morte serena del cristiano che è paziente nelle sofferenze. Questo sistema di credenze, insieme a fatti storici come la peste del 1348 che è una punizione divina assimilabile al diluvio universale di Noè, in grado di provocare un’apocalissi totale di tutto il tessuto socio-economico europeo, fa da filo conduttore a capolavori della letteratura italiana come il Decameron di Boccaccio. In quest’opera la peste si presenta come una tragedia collettiva che fa da cornice ai fatti narrati. L’autore fa emergere l’idea della peste come giusta punizione per un’umanità che si è corrotta, senza però abbracciare una prospettiva cristiana di conforto ultraterreno. Lo scrittore si sofferma sulle conseguenze dell’epidemia come lo sconvolgimento di qualsiasi regola sociale, il venir meno dei rapporti civili, la perdita della moralità connessa all’ignoranza, riducendo l’uomo a bestia. Tuttavia Boccaccio vede una rinascita sociale alla fine del romanzo: la vita ha la capacità di rigenerarsi e trasformarsi superando il morbo. La peste è una purificazione da cui rinascere e il racconto serve come strumento per ricominciare a vivere.
La peste è anche il mezzo attraverso cui si concretizza la scrittura del Canzoniere di Petrarca, il quale soffre per la perdita di amici e di conoscenti a causa di questo morbo, tra cui la sua stessa amata Laura, il personaggio a cui dedica l’opera. Petrarca assume una prospettiva più individuale rispetto a quella più sociale di Boccaccio, alternando ricordi gioiosi a momenti tristi e cupi che segnano la sua vita. Ripiega sulla sua spiritualità e riflette sul peccato, rivolgendosi a Dio e chiedendogli il perché di una morte così lenta e dolorosa come quella prodotta da tale pestilenza. Nel “Trionfo della morte” descrive la solitudine in cui è gettata l’umanità a causa della peste e della morte che ne consegue, ritenendo opportuno ricercare dentro di sé le forze per andare avanti, essendo diventata la religione un inefficace mezzo di conforto. L’uomo diventa il centro dell’universo e prende il posto di Dio, sancendo così un passaggio dalla spiritualità medievale a quella umanistico - rinascimentale.
Nel periodo rinascimentale c’è una predilezione per i temi della pazzia, del mondo alla rovescia e della pazzia che dà sfogo agli istinti repressi. Ricorrono i temi della fortuna, considerata alla stregua di una dea malefica da cui bisogna distaccarsi, del sentimento di tristezza, dell’impotenza per il tempo sfuggente, dell’onnipresenza della morte.
Nell’Ottocento Manzoni affronta il tema della peste ne “I promessi sposi”. Sfruttando il meccanismo della finzione letteraria, lo scrittore non vive direttamente il fenomeno della pestilenza narrata perché si riferisce ai fatti del Seicento, accaduti duecento anni prima dell’epoca in cui vive. La peste genera caos, disordine, indifferenza morale, depravazione e tocca buoni e cattivi, timorati di Dio e peccatori. Da cattolico, Manzoni crede nell’intercessione divina e sa che l’uomo può salvarsi se mette in campo un senso di responsabilità e di sublimazione razionale e religiosa. Nei promessi sposi la Provvidenza è un motore occulto che tutto sa e vede e ad essa tutto è ricondotto. La colpa (peste) è un’occasione affinché la grazia possa manifestarsi nella forma della conversione. La Provvidenza è per Manzoni una forza superiore che alleggerisce l’esistenza umana e dà sollievo alla vita terrena segnata da dolori. Sempre nell’Ottocento, chi vivrà direttamente sulla sua pelle la peste sarà Leopardi, per il quale il male è connaturato all’esistenza, alla natura ed è comune a tutta l’umanità e a tutti gli strati sociali. Forte del suo pessimismo storico che lo rende cosciente del fatto che l’evoluzione storica porta allo sviluppo della razionalità che priva l’uomo dell’illusione consolatrice, e sviluppando un pessimismo cosmico per cui la natura è una cattiva matrigna ed è fonte di tutti i mali, Leopardi assume una prospettiva anticristiana perché non crede nella presenza di un essere superiore che giudica. La colpa è originariamente una cosa dell’uomo che non riesce a sfuggire alla natura generatrice di tutte le sofferenze. La peste è un male, appartiene al mondo e alla natura, è un difetto. Il male è necessariamente esistente e inspiegabile e, per liberarsene, l’essere umano deve morire.
Se la storia è maestra di vita l’uomo deve capire che, dinnanzi ad un morbo come il coronavirus, la forma più alta di civiltà è seguire le regole e le indicazioni per bloccare l’espansione dell’epidemia, mettendo a bando qualsiasi sensazionalismo, qualsiasi banalizzazione, ogni forma di panico o confusione. Il senso civico, il rispetto per gli altri e per sé stessi, l’affidamento a Dio sono la chiave per uscire da questo tunnel oscuro per ritrovare la luce e per respirare la libertà e l’amore per la terra che deve rigenerarsi e rinascere. Trasformiamo l’attuale “terra desolata”, usando un’espressione presa dal celebre testo dello scrittore anglo-americano T.S. Eliot, una terra angosciante, triste e sconsolata, in una terra che ritrova i valori dell’altruismo, della compassione e dell’autocontrollo.
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