In morte di Prince, sempre in fuga dalla celebrità e dai luoghi comuni
Attore, talent-scout, personaggio e insieme fuggitivo, musicista nel senso più pieno del termine, anche per radici familiari, ricercatore inquieto e irrequieto. Un altro si sarebbe fermato al successo mondiale di Purple Rain, canzone, film, mito, ma lui aveva capito che fermarsi avrebbe significato morire.
“Tutti i fiori che hai piantato, madre, nel cortile di casa, sono morti tutti quando te ne sei andata”
Così cantava Sinéad O’ Connor nel 1990 pensando alla sua, di madre, che se ne era andata per sempre, riportando nello stesso tempo in vita una canzone di Prince, scritta per altri motivi, di pochi anni prima e passata inosservata. Come spesso accade, le parole anticipano, prevedono, anche se con il senno del poi. Un poi che oggi è un ascensore che nasconde il corpo di un mito ombroso e lunare di cui forse ci sarebbe più bisogno in questo tempo di famosi a tutti i costi, per i quali vale di più l’apparizione che la sostanza. Roger Nelson, per tutti Prince, era dall’altra parte dell’isola dei famosi, sul lato oscuro della luna, sul versante della ricerca e non della foto imbambolante e ruffiana. Era il blues del Delta, ma era pure il funky elettronico delle generazioni più giovani, era la Dance mai immobilizzata in una forma statica, sempre pronta a inabissarsi nel suo lato oscuro per rinascere come altra eppure un po’ se stessa. Era jazz contemporaneo, aveva attraversato la strada di Miles Davis, per dirne una, era soprattutto il nuovo rithm’n blues senza le ripetitività di scuola che l’avevano portato all’oblio dopo i fasti di James Brown e Otis Redding. Era anche oscurità, nascondimento, rifiuto di un sistema che ti mangia e ti impedisce di capire se tu mi sei amico perché sono io o perché sono ricco e famoso.Attore, talent-scout, personaggio e insieme fuggitivo, musicista nel senso più pieno del termine, anche per radici familiari, ricercatore inquieto e irrequieto. Un altro si sarebbe fermato al successo mondiale di Purple Rain, canzone, film, mito, ma lui aveva capito che fermarsi avrebbe significato morire. Eccolo il senso, quello che si trova nelle morali arcaiche, negli insegnamenti dei saggi, nel qigong come nei vangeli. Non diventare la statua di te stesso. Perché significa che sei arrivato, svuotato, morto. Anche le case discografiche non gli garbavano un gran che, e questo significa che la ricerca non era solo di mercato ma anche più generale, su tutto il campo. Il porto è la furia del mare, scrisse una volta un giovane filosofo italiano, negli anni Dieci del secolo breve. Chiudersi per un po’ significava per Prince trovare, individuare, dire qualcosa di vero e manifestare anche i propri limiti personali, anche se sei nevrotico, sospettoso, dubbioso. La ricerca di nuovi nomi come l’ultimo Tafkap, che sarebbe The artist formerly knows as Prince – l’artista comunemente conosciuto come Prince – non è solo vezzo, ma ricerca di nuovi orizzonti, nuove nascite, nuove autenticità. Un altro al posto suo si sarebbe stampato il nome “Prince” sulla fronte per farsi imbalsamare in esso e con esso vita natural durante. Per certi versi ricorda il nostro Battisti, sempre in fuga dalla celebrità piazziaiola e dai luoghi comuni. Sì, non saranno stati simpatici a tutti, ma hanno rimesso l’autenticità della ricerca, la libertà al centro della loro vita. Le isole dei famosi non li avrebbero mai avuti. E questo è un segno di grandezza.
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