A trent'anni dalla morte di Livatino
Era il 21 settembre 1990, si stava recando al lavoro e con spietatezza venne assassinato da quattro uomini della Stidda, una delle molte sigle mafiose.
La cronaca ripropone puntualmente le ricorrenze delle morti per mani mafiose. La stessa cronaca aggiorna, sempre puntualmente, sulle risposte delle forze dell’ordine all’illegalità e alla criminalità. Il tema della lotta tra il bene e il male è sempre in prima pagina. La domanda sulla storia come maestra di vita non perde d’attualità.
Tra le ricorrenze c’è, ormai prossima, quella dell’assassinio di Rosario Angelo Livatino, 38 anni, magistrato ad Agrigento. Era il 21 settembre 1990, si stava recando al lavoro e con spietatezza venne assassinato da quattro uomini della Stidda, una delle molte sigle mafiose.
Conclusa la fase diocesana continua il processo per la sua beatificazione. “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili” aveva scritto il giovane giudice che si era formato nell’Azione cattolica.
La data del 21 settembre richiama un altro laico che fu testimone oculare di quell’assassinio. Si chiamava Pietro Nava. Viaggiava in auto sullo stesso tratto di autostrada, vide la scena dell’inseguimento a piedi e sentì gli spari. Non si lasciò intimidire dagli assassini, raccontò quello che aveva visto consentendo il loro arresto e quello dei mandanti.
C’è un legame tra i due uomini. Il giovane giudice venne ucciso perché non aveva voltato la testa davanti alla illegalità e alla criminalità, uno “sconosciuto” pagò un altissimo prezzo personale, familiare e professionale perché non aveva voltato la testa davanti alla minaccia di morte.
Livatino moriva e il suo amore per la verità e la giustizia prendeva posto nella coscienza di uno “sconosciuto”.
Una stele eretta nel luogo dell’assassinio tiene viva la memoria del giovane magistrato e nello stesso tempo rilancia la testimonianza di “un uomo normale”: entrambi credibili.
Pietro Nava non conosceva il giudice e neppure il suo pensiero ma c’erano ideali e valori che univano misteriosamente un uomo del Sud e un uomo del Nord. Quest’ultimo in un’intervista aveva detto “Io non sono un coraggioso, sono un uomo normale, che ha fatto una cosa normale. E che rifarei domattina”.
Queste parole come, anche recentemente, quelle di altri hanno consentito e consentono alla speranza di abitare ancora una società attraversata da paure, da silenzi ambigui, da giramenti di testa.
Sì, è vero, lo Stato e le sue istituzioni non devono lasciare soli quanti lottano contro l’illegalità e la criminalità ma è soprattutto il popolo che deve tenere gli occhi aperti e alzare la voce di fronte al male. Sono una coscienza personale e una coscienza popolare che non devono lasciar dissolvere la memoria nelle celebrazioni e nelle pagine dei giornali.
Biografia:
Rosario Livatino è nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, dal papà Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e dalla mamma Rosalia Corbo. Rosario conseguì la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode. Il 21 aprile ’90 conseguì con la lode il diploma universitario di perfezionamento in Diritto regionale. Giovanissimo entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell’Ufficio del Registro di Agrigento dove restò dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978.
Nel frattempo però partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per un decennio, dal 29 settembre ’79 al 20 agosto ’89, come Sostituto Procuratore della Repubblica, si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche (nell’85) di quella che poi negli anni ’90 sarebbe scoppiata come la “Tangentopoli siciliana”. Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto ’89 al 21 settembre ’90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione.
Dell’attività professionale di Rosario Livatino sono pieni gli archivi del periodo non solo del Tribunale di Agrigento ma anche degli altri uffici gerarchicamente superiori. Rosario Livatino fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre ’90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre, senza scorta e con la sua auto, si recava in Tribunale. Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i “collaboranti”.
Il pensiero. Nell’agenda di Livatino del 1978 c’è un’ invocazione sulla sua professione di magistrato, datata 18 luglio, che suona come consacrazione di una vita: “Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”. Fede e diritto, come Livatino spiegò in una conferenza tenuta a Canicattì nell’aprile 1986 ad un gruppo culturale cristiano, sono due realtà “continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”.
Rifacendosi ad alcuni passi evangelici, Livatino osservava come Gesù affermi che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali”.
Ancora su questo aspetto, Livatino dichiarava: “Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”. Rispetto al ruolo del magistrato, nella stessa conferenza, Livatino affermava: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Hanno detto di lui. Il Papa, il 9 maggio 1993, Giovanni Paolo II in occasione della sua visita pastorale, in Sicilia il 9 maggio del 1993, dopo aver incontrato ad Agrigento i genitori di Livatino, dirà degli uccisi dalla mafia: “Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Nella messa di commiato, il suo vescovo lo descrisse come giovane “impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’Eucaristia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso”. E’ attestato il suo impegno affinché, nell’aula delle udienze, in tribunale, ci fosse un crocifisso. Ogni mattina, prima di entrare in tribunale, andava a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe.
(La biografia è tratta dal sito centrostudilivatino.it)
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