Chiusi i negoziati al Cairo. Ma è già allerta tra Israele ed Hezbollah
Difficile non subire la tentazione di notare la concomitanza tra l’attacco e i colloqui in corso. E forse non è così peregrino ipotizzare che esso abbia contribuito all’impostazione al ribasso della bozza testé licenziata. La quale, a quanto si apprende, è stata calibrata sulla proposta di un armistizio “esplorativo” di appena 72 ore nella Striscia. Certo, meglio di niente, comunque un punto da cui iniziare. Potremmo pensare questo e così potrebbe essere, nella speranza di vedere smentito il pessimismo che addita la sedia lasciata vuota dalla grande assente all’ennesimo tavolo negoziale: una sincera e costruttiva volontà di pace.
I negoziati del Cairo si sono conclusi nella serata di ieri. La delegazione israeliana, guidata dal direttore del Mossad, dal capo dello Shin Bet e dal generale Alon dell’Idf, è tornata in patria per riferire a Netanyahu i termini della bozza stilata con i mediatori di Egitto e Qatar, alla presenza del capo della Cia Burns. Sul contenuto del documento, per ora, circolano solamente indiscrezioni, ma gli sviluppi non sembrano collocarsi sotto i migliori auspici.
Il rifiuto della delegazione di Hamas di partecipare ai colloqui diretti, per incontrare invece soltanto i mediatori egiziani e qatarioti, materializza l’indisponibilità a transigeredell’organizzazione palestinese a transigere su un punto fermo, definito al tavolo del 2 luglio: la richiesta di un armistizio totale quanto la smobilitazione dell’Idf dalla Striscia di Gaza. Il che si scontra con la pretesa, simmetricamente opposta, manifestata dal governo israeliano, che invece vuole conservare il controllo militare. Il ritiro, infatti, demolirebbe la rappresentazione degli obiettivi enunciati all’indomani del 7 ottobre da Tel Aviv, ossia la liberazione degli ostaggi non disgiungibile dalla distruzione radicale di Hamas. L’ipotesi di fermare la “profilassi”, inoltre, è oggetto del veto assoluto da parte dell’ultradestra sionista alleata del Likud, che minaccia Netanyahu di aprire la crisi di governo laddove indulgesse a qualsiasi di allentamento della morsa. E per rafforzare tale avviso intensifica il supporto ai coloni che, organizzati in formazioni paramilitari, imperversano in Cisgiordania.
Le incognite si estendono sul rilascio degli ostaggi israeliani, in ragione di un criterio di scambio con i prigionieri palestinesi non meglio chiarito. Altra zona grigia, relativamente ai contenuti della proposta caldeggiata da Blinken, sarebbe la gestione del corridoio Filadelfia, cuscinetto tra la Striscia e il Sinai egiziano, e quello di Netzarim, che taglia in due la lingua di terra gazawi. L’Egitto – che dal 2005, ossia con la revisione degli accordi del 1979, pattuglia esternamente il primo – avrebbe sostenuto la proposta statunitense di sostituire alla maggior parte dei check point dell’Idf il presidio di forze Onu con il supporto Ue.
Chiedendo altresì a Israele di allontanarsi dal valico di Rafah e distanziare le truppe dalle concentrazioni di civili, mantenendo la militarizzazione di tutto il restante perimetro confinario. Ma anche su questa ipotesi le parole di Netanyahu non hanno fornito riscontri inequivoci.
La Casa Bianca, nonostante tutto, continua a ostentare ottimismo, preoccupata dalla necessità di arrivare a novembre avendo ricomposto le fratture nel variegato elettorato di riferimento dem. Al momento urge portare a casa qualche risultato, atto a cucire assieme pezze che invece a molti sembrano inassemblabili: stare con Israele “senza se e senza ma” e al contempo promuovere la legalità internazionale; comprendere le aspirazioni sovrane della Palestina su cui Tel Aviv non transige, conciliandole con la lotta senza quartiere ai nemici mediorientali dell’integrità dello Stato sionista, i quali si ergono a paladini della causa palestinese in connubio con la violenza massimalista di Hamas.
Su un piano più prettamente geopolitico, al di là delle vicende elettorali, agli Usa preme cauterizzare ogni rischio di allargamento regionale di un conflitto che non si avrebbe agio di disciplinare. In questo senso alquanto perspicuo il perdurante silenzio tenuto dall’Iran dopo avere promesso ritorsioni punitive a danno di Israele per l’uccisione a Teheran di Hanyeh, leaeder di Hamas. L’inerzia iraniana può essere concepita come una leva sullo sviluppo dei negoziati. Ma può essere letta anche come la preferenza a investire sull’ansia antiescalativa degli Usa: anziché azzardare un infruttuosa quanto autolesionistica rappresaglia, Teheran sembra avere optato per il temporeggiamento, mediante una minaccia “sospesa” che elude proficuamente la trappola reattiva tesa da Israele.
Non solo aumentando il proprio potere contrattuale per ottenere vantaggi di contraccambio su diversi dossier (dal nucleare civile alla portata dell’embargo), ma anche per favorire, con il protrarsi della snervante attesa, divergenze e frizioni tra Casa Bianca e Tel Aviv, quantunque non sufficienti a logorarne le relazioni.
Ma è chiaro che il governo israeliano procede a testa bassa anche su questo capitolo. Neanche i colloqui al Cairo, al pari delle precedenti interlocuzioni prenegoziali, hanno conosciuto il silenzio propiziatorio delle armi. Quasi a suggerire fattivamente l’assenza di una reale e affidabile volontà di raggiungere una pur ridotta piattaforma di accordo. Quasi a rivelare, nella puntuale tempistica delle iniziative belligere, il sabotaggio di ogni proposito interrompere la spirale di morte e distruzione. Così, già tra sabato e domenica, Israele ha sferrato un raid nella periferia sud di Beirut, giustificato come attacco preventivo contro movimenti sospetti di Hezbollah, che pure, al pari dell’Iran, teneva in sospensione la punizione promessa, revocabile solo in caso di un cessate il fuoco totale su Gaza. Il gruppo libanese ha risposto bersagliando con i suoi razzi il territorio settentrionale di Israele, posto in stato di massima allerta. Alla reazione si sono associate le Brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, che cogliendo la palla al balzo avrebbero rivendicato il lancio di un missile M90 nei dintorni di Tel Aviv. In questo modo Tel Aviv ha ottenuto il rafforzamento della presenza militare statunitense nell’area, giacché Washington ha subito disposto l’affiancamento della Lincoln alla Roosevelt, in luogo dell’avvicendamento già programmato tra le due portaerei.
Difficile non subire la tentazione di notare la concomitanza tra l’attacco e i colloqui in corso. E forse non è così peregrino ipotizzare che esso abbia contribuito all’impostazione al ribasso della bozza testé licenziata. La quale, a quanto si apprende, è stata calibrata sulla proposta di un armistizio “esplorativo” di appena 72 ore nella Striscia. Certo, meglio di niente, comunque un punto da cui iniziare. Potremmo pensare questo e così potrebbe essere, nella speranza di vedere smentito il pessimismo che addita la sedia lasciata vuota dalla grande assente all’ennesimo tavolo negoziale: una sincera e costruttiva volontà di pace.
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