L'Italia è tra i Paesi che investono meno in politiche attive
Il demografo Alessandro Rosina commenta i dati diffusi ieri dall'Istat: 509mila nascite in Italia nel 2014, 5mila in meno rispetto al 2013. La denatalità, afferma l'esperto, indica "prima di tutto un problema di politiche inadeguate. Ma è anche vero che si tende a posticipare la natalità, con una 'tattica del rinvio' adottata troppo facilmente e che, alla fine, rischia di complicare la possibilità di realizzare i propri obiettivi di vita". Cala la fecondità anche tra le donne straniere
Si aggrava sempre più il declino demografico dell’Italia. Secondo i dati diffusi ieri (12 febbraio) dall’Istat, sono 509mila le nascite nel 2014, 5mila in meno rispetto al 2013. Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39 (contro una media europea di 1,58): precisamente, le italiane procreano 1,31 figli, 1,97 le straniere. L’età media al parto sale a 31,5 anni. Ad Alessandro Rosina, demografo e docente all’Università Cattolica di Milano, nonché coordinatore scientifico del “Rapporto giovani” promosso dall’Istituto Toniolo, abbiamo chiesto un commento a questi dati.
Le nascite nel nostro Paese, secondo l’Istat, hanno raggiunto “il livello minimo dall’Unità d’Italia”. Quali, a suo avviso, le cause del perdurare di questo declino?
“Confrontandoci con gli altri Paesi europei, notiamo che qui mancano quelle condizioni che altrove ci sono. Partiamo dai giovani: se faticano a trovare lavoro e una stabilizzazione occupazionale - problema già presente prima della crisi e ora inaspritosi - è chiaro che le difficoltà del presente fanno posticipare nel futuro scelte impegnative come il formare una famiglia autonoma e fare figli. Siamo tra i Paesi che investono di meno in politiche attive, che li aiutino a inserirsi nel mercato del lavoro e che sostengano il reddito nelle situazioni di disoccupazione. Questo pesa sulle scelte dei giovani, nonostante - come rileva il Rapporto giovani - la loro voglia di costruire progetti di vita e il desiderio di avere più di due figli”.
Peraltro siamo al di sotto di una media europea che, comunque sia, non raggiunge l’equilibrio demografico…
“Esatto. Già l’Europa è un continente che invecchia e ha problemi di scarso ricambio generazionale. Ci sono però situazioni molto differenziate: la Francia è vicina al tasso di sostituzione generazionale di 2 figli per donna, come pure alcuni Paesi del Nord Europa; altri, come l’Italia, si trovano ben al di sotto della media. L’Italia, più di altri Paesi, da un lato non mette i giovani in grado di costruire solidi progetti di vita, mentre dall’altro vi è una carenza di politiche che investano sulla famiglia. All’interno della spesa sociale siamo uno dei Paesi che destina la quota più bassa in investimenti per la famiglia, e questo si ripercuote sui servizi erogati, ad esempio quelli che aiutano la conciliazione tra lavoro e famiglia, come gli asili nido. Senza politiche di conciliazione - nelle quali investiamo molto poco, e al Sud ancora meno - chi ha figli non riesce a conciliare il compito genitoriale con il lavoro e rischia d’impoverirsi, mentre le donne che lavorano, di converso, tendono a posticipare l’arrivo dei figli o a rinunciarvi”.
Al Nord abbiamo 1,46 figli per donna; 1,32 al Sud. Ma non era il Mezzogiorno, anche per motivi culturali, la parte più prolifica del Paese?
“È dal 2005 che c’è questa inversione di fecondità tra Sud e Nord. Questo fa capire quanto, al di là della propensione individuale, degli aspetti culturali e del desiderio di fare famiglia, le effettive difficoltà economiche e le carenze del welfare - entrambe più accentuate al Sud - pesino molto sulle scelte delle famiglie”.
Anche la fecondità delle donne straniere è in calo, scendendo per la prima volta sotto la soglia dei 2 figli per donna…
“Anche il contributo delle donne straniere comincia a essere insufficiente per garantire un equilibrato ricambio generazionale della popolazione italiana. Costoro partono da una propensione maggiore ad avere figli, legata agli aspetti culturali dei Paesi d’origine, ma si trovano ad affrontare le medesime difficoltà delle donne italiane, in termini economici - inaspriti dalla crisi - e di carenza dei servizi di welfare”.
Quindi il problema della denatalità non è tanto culturale quanto legato alla carenza di politiche pubbliche?
“Entrambe le questioni vanno tenute in considerazione. Prima di tutto è un problema di politiche inadeguate e carenti. Ma è anche vero che si tende a posticipare la natalità, con una ‘tattica del rinvio’ adottata troppo facilmente e che, alla fine, rischia di complicare la possibilità di realizzare i propri obiettivi di vita”.
Proprio in questi giorni si è tornato a parlare degli 80 euro di “bonus bebè” per le neomamme. È una misura che potrà creare un reale beneficio ai fini della natalità?
“Le vere misure sono altre, strutturali: un fisco più equo, maggiori investimenti in servizi per l’infanzia, politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Il bonus bebè non è una misura strutturale, ma è pure vero che in momenti di crisi economica e incertezza può avere un effetto positivo, perché indica che lo Stato vuole fare qualcosa e può scardinare quella propensione al rinvio in chi vuole avere figli. È un segnale positivo in attesa di misure più rilevanti, che però bisogna cominciare da subito a mettere in campo”.
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