Dante: la sapienza dell'Abate m'illumina
Gli studi di Ratzinger su Bonaventura e le nuove ricerche aprono altri spazi sulla statura del monaco
Gli studi della seconda metà del Novecento hanno messo in rilievo l'influsso del pensiero di Gioacchino su Bonaventura da Bagnoregio e su Dante Alighieri.
Nella sua tesi per l'abilitazione alla libera docenza nella Facoltà di teologia, Joseph Ratzinger ha dedicato un'indagine approfondita al confronto tra la concezione della teologia della storia di Bonaventura e quella di Gioacchino da Fiore. Lungo il testo viene studiato l'influsso di Gioacchino su Bonaventura, confrontando la coscienza storica dei due autori.
San Bonaventura ha accolto la concezione gioachimita di Cristo "centro dei tempi", e non solo "fine dei tempi", come era stato presentato durante tutto il primo millennio cristiano.
“L'Abate calabrese mette a confronto il tempo del Nuovo Testamento, quale storia salvifica capace di progressione temporale, con la storia dell’Antico Testamento. Si verifica con lui ciò che in precedenza non era mai avvenuto: Antico e Nuovo Testamento appaiono come le due metà del tempo storico, costruite in modo uguale; dunque Cristo si presenta come la svolta dei tempi. Egli è il centro, il perno della storia, a partire dal quale il corso del mondo inizia ancora una volta su di un piano più elevato, scrive Ratzinger in " La nuova coscienza del tempo della fine in Gioacchino da Fiore". L’idea di considerare Cristo l’asse dei tempi è estranea a tutto il primo millennio cristiano. Per questo millennio Cristo non è il perno della storia con cui un mondo mutato e redento ha inizio ed una storia irredenta durata sino a quel momento viene abbandonata; per esso Cristo è piuttosto il principio della fine. Egli è “redenzione” nella misura in cui con lui la “fine” comincia a risplendere nella storia. La redenzione consiste (da un punto di vista storico) in questa fine iniziata mentre la storia procede “per nefas” ancora per un certo tempo, conducendo l’antico evo di questo mondo alla sua fine. L’idea di vedere in Cristo l’asse della vicenda del mondo emerge solo in Gioacchino….E Gioacchino divenne, proprio nella Chiesa stessa, l’antesignano di una nuova comprensione della storia che oggi ci appare essere la comprensione cristiana in modo così ovvio da renderci difficile credere che in qualche momento non sia stato così”.
Bonaventura è sintonizzato con Gioacchino nell'intendere la rivelazione "non più semplicemente come la comunicazione di alcune verità alla ragione, ma come l'agire storico di Dio, in cui la verità si svela gradatamente".
È questa l'idea rinnovata di rivelazione che Ratzinger avrebbe veicolato, nominato teologo esperto al Concilio Vaticano II, nei documenti conciliari sulla divina Rivelazione.
GIOACCHINO DA FIORE E DANTE ALIGHIERI
Leone Tondelli, Herbert Grundmann, Antonio Crocco e Marjorie Reeves sono gli autori che maggiormente hanno messo in risalto l'influenza di Gioacchino su Dante Alighieri.
La vivida bellezza coloristica dello splendido albo del Liber Figurarum ed il simbolismo dello Psalterium decem cordarum di Gioacchino da Fiore hanno ispirato Dante. Il sommo poeta, da giovane, frequentò a Firenze la scuola del Convento francescano di Santa Croce dove, in quegli anni, insegnava teologia Pietro di Giovanni Olivi. Con la sua Lectura super Apocalypsim, Pietro di Giovanni Olivi rilanciò e attualizzò il messaggio della speranza della terza età dell’abate di Fiore. Presso i frati di Santa Croce, Dante conobbe anche Ubertino da Casale, un teologo francescano autore di un’opera, Arbor vitae crucifixae Jesu Christi, nella quale la lettura apocalittica della storia della Chiesa era ispirata al pensiero di Gioacchino. Ubertino da Casale, uno dei personaggi principali del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, dava voce all’attesa gioachimita di un’era di pace in cui la Chiesa sarebbe stata guidata dal “Papa angelico”. Questo spirito gioachimita, largamente diffuso fra i francescani, pervade la Divina Commedia.
Nel XXXIII Canto del Paradiso Dante contempla le tre Persone divine e, con una grandiosa raffigurazione, illustra il mistero della Trinità: “Nella profonda e chiara sussistenza/ dell’alto Lume parvermi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;/e l’un da l’altro, come iri da iri,/ parea reflesso, e il terzo parea foco, / che quinci e quindi ugualmente si spiri”. È l’immagine dei tre cerchi trinitari, disegnata da Gioacchino nell’undicesima tavola del Liber figurarum e descritta dall’abate di Fiore nell’ Expositio in Apocalypsim (tres in ea colores esse perpendimus: unum viridem, alium caerulum, tertium rubicundum). Questa figura sintetizza i motivi fondamentali della dottrina di Gioacchino. Oltre a quella dei tre cerchi trinitari, altre affascinanti immagini ideate dalla fantasia mistica di Gioacchino sono trasfigurate dalla fantasia lirica di Dante: la figura della candida rosa dell’Empireo nel XXXI Canto del Paradiso è ispirata dalla tavola XIII del Liber figurarum, il Salterio dalle dieci corde. La profezia del Veltro del I Canto dell’Inferno si ricollega alla concezione dell’abate silano e al suo messaggio di rinnovamento della società cristiana; l’enigmatico verso pronunciato da Adamo nel XXVI Canto del Paradiso “I s’appellava in terra il sommo bene” deriva dalla simbologia gioachimita, la lettera “I” del Tetragramma sacro che designa il Padre, la sola Persona divina rivelata al primo uomo; la suggestiva visione dantesca dell’ aquila ingigliata del cielo di Giove nei canti XVIII-XX del Paradiso è ideata dalle splendide miniature delle tavole V e VI del Liber Figurarum, delle quali Dante riporta anche i dettagli (il rubino delle ali, un occhio solo, una pupilla e un ciglio, proprio come nelle figure gioachimite) e dalla immagine raffigurata in un’altra opera dell’abate di Fiore, lo Psalterium decem cordarum, dove l’aquila ha un valore allegorico compatibile con i versi danteschi; la grande visione dei canti XXIX-XXX del Purgatorio ove Beatrice è immagine e simbolo dell’ Ecclesia spiritualis, che Gioacchino aveva lasciata come una eredità sacra alla spiritualità del secolo XIII.
Gioacchino da Fiore e Dante Alighieri sono accomunati dalla visione critica alla Chiesa del loro tempo che si era lasciata invischiare da interessi economici e politici fuorvianti. Per Gioacchino e Dante la Chiesa deve fondare la Pace sulla Giustizia e la Giustizia sulla Carità.
Dante riconosce, nel XII Canto del Paradiso, il suo debito nei confronti di Gioacchino: lo colloca, infatti, fra gli spiriti sapienti, appagati perennemente dalla visione della Trinità.
Le luci degli spiriti sapienti sono disposte in modo da formare due corone concentriche di dodici anime ciascuna. Da una corona si leva la voce del domenicano San Tommaso d'Aquino che loda San Francesco d'Assisi e le origini del francescanesimo lamentando poi la decadenza dell'ordine domenicano; dall'altra corona si stacca il francescano San Bonaventura da Bagnoregio che tesse l'elogio della vita di San Domenico di Guzman rammaricandosi poi per la decadenza dell'ordine francescano.
San Bonaventura così presenta a Dante e a Beatrice il monaco di Fiore: "e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato".
La parafrasi tradizionalmente accreditata di questa terzina ("risplende al mio lato..) è riduttiva, quindi, dal punto di vista concettuale; appare anche non corretta dal punto di vista grammaticale poichè trasforma un pronome personale in un aggettivo possessivo.
La parafrasi che proponiamo, "La sapienza di Gioacchino mi illumina", rende giustizia alla eccellenza dell'abate calabrese ed alla vitalità del suo pensiero.
*Presidente del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti
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