Quanta acqua si “spreca” per produrre ogni alimento?
Il progetto Water to Food del Politecnico di Torino nasce per raccogliere e divulgare le informazioni legate all’impronta idrica nella filiera alimentare
Sapevate che per produrre un hamburger occorrono tremila litri di acqua? E per un chilo di caffè ne servono diciannove mila e circa 800 litri per un chilo di mele? Del resto quanta acqua costa il cibo che consumiamo non è riportato su nessuna etichetta. Da un recente studio del Politecnico di Torino, Water to food, un progetto di comunicazione di dati e informazioni sull’impatto che la produzione e il commercio internazionale di cibo hanno sulle risorse idriche mondiali e locali, oggi possiamo calcolare in tempo reale, prodotto per prodotto, Paese per Paese, l’impronta idrica. Nato dal progetto di ricerca europeo Coping with WAter Scarcity In a globalized world, CWASI, coordinato da Francesco Laio, docente presso il Dipartimento di Ingegneria per l’ambiente, il territorio e le infrastrutture del Politecnico, Water to Food nasce durante il lockdown da un’idea di tre giovani ricercatrici: Benedetta Falsetti, Carla Sciarra e Marta Tuninetti, che nell’ultimo anno hanno lavorato al fianco di un team di esperti in comunicazione digitale. “La chiave di questo progetto di divulgazione – afferma la ricercatrice Benedetta Falsetti – è la convinzione che tutta la società dovrebbe essere coinvolta per poter proteggere e gestire al meglio le risorse idriche”. Attraverso una mappa interattiva dell’acqua compaiono delle bolle in corrispondenza di ogni Paese per calcolare quanta ne è servita per ogni prodotto. Per produrre una bottiglia di latte in Italia vengono utilizzati 703 litri; per un avocado coltivato in Cile 733 litri di acqua. “Generalmente i prodotti di origine animale – spiega l’altra ricercatrice, Marta Tuninetti – richiedono più acqua: un chilogrammo di carne di bovino per esempio richiede circa 15.400 litri per essere prodotto”. Attraverso Water to food ci si può imbattere in un viaggio virtuale dell’acqua, da Paese a Paese, che ci fa capire che non importiamo ed esportiamo solo prodotti, ma anche tutta l’acqua necessaria a realizzarli. “In uno scenario in cui i cambiamenti climatici di sicuro avranno degli effetti nei Paese di produzione – afferma la ricercatrice del Politecnico di Torino, Carla Sciarra – dobbiamo sempre di più conoscere come siamo dipendenti gli uni degli altri e fare attenzione alle nostre scelte quotidiane”. “Water to Food è pensato proprio per chi, essendo curioso e attento su questi temi e volenteroso di ridurre l’impatto sulle risorse idriche della sua dieta, possa accedere in maniera rapida e facile a un vasto database di informazioni, che possono aiutare nella scelta degli acquisti e promuovendo così un consumo di acqua più sostenibile – spiegano le ricercatrici. “Per raggiungere il nostro obiettivo di comunicare i risultati della nostra ricerca – proseguono – abbiamo anche prodotto un libro di infografiche e informazioni utili alla società, presto consultabile sul sito Water to Food e un video esplicativo della ricerca e dei suoi concetti chiave. Ci piacerebbe che questo portale, ricco di tante informazioni, diventi un punto di riferimento per tutti gli interessati e per altri ricercatori per creare sinergie di lavoro”.
L’obiettivo del progetto è mettere a disposizione della società i dati riguardanti l’acqua virtuale contenuta nel cibo che si consuma, ovvero l’acqua che, prelevata da una nazione per coltivare e lavorare un determinato bene, si sposta con esso dal posto di produzione al posto di consumo. Questi dati, prodotti negli anni dalla squadra di ricercatori e ricercatrici del progetto CWASI, sono oggi facilmente accessibili e leggibili da chiunque voglia informarsi sul tema, magari proprio nel momento in cui è tra i corridoi del supermercato e sta decidendo cosa comprare: basta collegarsi al sito watertofood.org e accedere alla sezione Play with data, e controllare il valore della “water footprint” l’impronta idrica del prodotto, analizzando le differenze tra i posti diversi di produzione. E così si può scoprire che per produrre un chilo di caffè etiope servono più di undicimila litri di acqua e che l’Italia importa dall’Etiopia circa 95 milioni di metri cubi di acqua proprio sotto forma di chicchi da tostare. E ancora per la pasta: tra i vari stati da cui proviene il grano, l’Italia importa da Russia, Australia, Stati Uniti e Canada, stato da cui importa più di un miliardo di metri cubi di acqua virtuale. Considerando che il Lago di Garda ha un volume di circa 50 chilometri cubi, si stima che il volume totale di acqua virtuale che l’Italia importa sotto forma di cibo nel corso di un anno sia circa 1750 chilometri cubi (secondo una stima fatta per l’anno 2016), volume che corrisponde a circa 35 volte il volume, appunto, del lago di Garda.
Grazie al lavoro dei ricercatori del Politecnico di Torino adesso riusciamo a convertire la spesa in acqua, il volume idrico complessivo di una nostra giornata sarebbe quello di una balenottera azzurra: 8185 litri.
Non sei abilitato all'invio del commento.
Effettua il Login per poter inviare un commento